economia, lavoro

"Perchè crolla la produttività", di Tito Boeri

La produttività oraria del lavoro in Italia è diminuita nell´ultimo decennio ben prima della grande recessione.
È poi crollata di più del 5% dal 2007 al 2009, nonostante il forte calo delle ore lavorate. Lo ha certificato ieri l´Istat. Questi dati spiegano una volta di più perché siano tutti insoddisfatti: i lavoratori i cui salari sono piatti da ormai quindici anni e i datori di lavoro che si accorgono di perdere competitività nei confronti della concorrenza. Per loro conta il costo del lavoro per unità di prodotto. Questo aumenta anche quando i salari sono piatti, ma la produttività diminuisce. E negli altri paesi verso i quali sono principalmente rivolte le esportazioni delle imprese italiane, Francia e Germania, la produttività del lavoro è cresciuta dal 5 al 10% nello stesso arco di tempo.
Il nostro sistema di contrattazione ha un ruolo fondamentale da giocare per migliorare la situazione perché può legare più strettamente di quanto avvenga ora salari e produttività. Le imprese metalmeccaniche che hanno introdotto contratti che legano esplicitamente salari e produttività dopo gli accordi del luglio 1993 hanno conosciuto incrementi di produttività del 5% superiori alle altre imprese dello stesso settore comparabili in quanto a dimensioni e composizione della forza lavoro. E fino al 50% degli incrementi della produttività del lavoro nei paesi Ocse si spiega con spostamenti di lavoratori, attratti da imprese più efficienti che offrono salari più alti.
Ma il nostro sistema di contrattazione e di relazioni industriali è sempre più in affanno. Le nuove regole della contrattazione, sottoscritte nello «storico accordo» del 22 gennaio del 2009 hanno perso per strada, ancora prima di entrare in vigore, il più grande sindacato italiano. Le rappresentanze datoriali si sono sfilacciate, con la creazione di Rete, l´associazione che riunisce le piccole imprese e gli artigiani. E rischiano ora di perdere molte imprese private nel metalmeccanico, soprattutto ora che si è appreso che il tavolo sul contratto dell´auto richiesto da Federmeccanica su pressione della Fiat non ci sarà. In questi contratti coesistono imprese troppo diverse tra di loro, da aziende che forniscono servizi di informatica a imprese che producono delle auto.
Il ministro del Lavoro, oltre ad annunciare ripetutamente e costantemente rinviare la presentazione dei suoi piani per il lavoro, continua a sostenere che il nostro sistema di relazioni industriali funziona bene, anzi benissimo. A riprova di questa affermazione ama citare il basso numero di ore di sciopero in Italia durante la grande recessione. Ma sempre durante le crisi le ore di sciopero tendono a crollare perché lo sciopero quando un´impresa ha un eccesso di capacità produttiva è sempre un´arma spuntata: un datore di lavoro è ben lieto quando può ridurre il numero di ore lavorate e retribuite in tale congiuntura. Un sistema di relazioni industriali funzionante dovrebbe comportare un basso numero di lavoratori che hanno contratti collettivi scaduti. Nonostante l´accordo di un anno e mezzo abbia allungato la durata dei contratti da due a tre anni, la percentuale di lavoratori in regime di «vacanza contrattuale» non è diminuita nell´ultimo anno. Ma soprattutto le regole della contrattazione dovrebbero riuscire a conciliare aumenti salariali e competitività, sostenendo la crescita della produttività. È questo il vero test e i dati diffusi ieri dall´Istat sono la testimonianza più eloquente di un fallimento.
Il vero messaggio che possiamo leggere nelle vicende di Pomigliano e Mirafiori delle ultime settimane è che per attrarre capitali dall´estero dobbiamo riformare il nostro sistema di relazioni industriali e le regole della contrattazione. La Fiat ormai è un´impresa senza fissa dimora. Il vero acronimo dovrebbe essere Famiglia Italiana Abbandona Torino perché lo scorporo in atto, soprattutto in vista di inevitabili fusioni e acquisizioni, diluisce fortemente la quota della famiglia Agnelli nell´azienda. Per questo oggi la Fiat può scegliere quale sistema di relazioni industriali adottare, cambiando la localizzazione dei suoi impianti. Del resto la Fiat aveva già fortemente ridotto nel tempo (molto di più delle imprese concorrenti che hanno base in paesi con un costo del lavoro più alto del nostro, come Francia, Germania, Giappone e Stati Uniti) la propria quota di attività nel paese della casa madre.
È dunque tempo di riaprire il confronto sulle regole della contrattazione e varare al più presto la legge sulle rappresentanze che ne è il necessario complemento. Spetta alle parti sociali, compresa ovviamente la Cgil. Si preoccupa quest´ultima, e a ragione, di cosa accadrà ai lavoratori delle piccole imprese nel caso di superamento del contratto nazionale, dato che nelle piccole imprese il sindacato non è spesso rappresentato. Ma si possono legare salari e produttività anche senza abbandonare il contratto nazionale. Basta definire a questo livello regole che legano salari e produttività da applicare poi, impresa per impresa, ai risultati aziendali, lasciando libere le imprese che fanno contrattazione «di secondo livello» (dove c´è il sindacato) di adottare regole alternative.

La Repubblica 04.08.10