Per uscire da una crisi grave come quella che da tre anni attanaglia le economie occidentali occorrono i consigli di un vero specialista: e, quanto a crisi, nessun pensatore politico italiano – nemmeno Benedetto Croce o Antonio Gramsci, che sperimentarono sulla propria pelle l’avvento del fascismo – merita tale definizione quanto Niccolò Machiavelli. A fare fede, qui, è innanzitutto la sua biografia. Machiavelli aveva venticinque anni quando le truppe del re di Francia Carlo VIII varcarono le Alpi, facendo saltare il sistema di equilibrio a cinque su cui da tempo si reggeva la penisola (Milano, Venezia, Firenze, Roma e Napoli), ma soprattutto dando inizio a una cruenta stagione di guerre che, con pochissime pause, si sarebbe prolungata almeno fino al 1530: quando il fiorentino era già morto da tre anni. Quel 1494 fu vissuto dagli italiani come una data spartiacque, perché il rapido ed effimero successo di Carlo VIII dimostrò a tutti in maniera incontrovertibile come, diviso, il paese più ricco e più avanzato culturalmente d’Europa fosse incapace di resistere alle incursioni dei vicini. Così, negli anni successivi francesi e spagnoli si sarebbero contesi la supremazia, fino a quando il terribile sacco di Roma del 1527 – pochi mesi prima della morte di Machiavelli – sancì definitivamente la supremazia di questi ultimi.
Machiavelli non smise per tutta la vita di riflettere su quello scacco epocale. La sconfitta, nel suo caso, era duplice, perché oltre all’Italia c’era anche Firenze. Qui, alla discesa di Carlo VIII, i Medici, signori de facto della città, erano stati cacciati ed era stata restaurata la repubblica presso cui proprio Machiavelli aveva poi servito per quattordici anni in qualità di cancelliere: finché, nel 1512, le armate spagnole avevano riportato in città gli eredi di Lorenzo il Magnifico. Qualche mese prima della morte, sulla scia del sacco di Roma, Machiavelli avrebbe fatto in tempo a vedere rinascere ancora una volta la repubblica, ma tutta la “seconda” vita del fu segretario fiorentino dopo l’allontanamento dagli uffici può essere considerata egualmente un unico, ininterrotto ragionare sulle cause di quella disfatta e sui modi per porvi rimedio.
Proviamo allora ad ascoltare la sua lezione. La prima cosa che Machiavelli ci ricorda è che le crisi giungono improvvise soltanto perché non sappiamo riconoscere gli infiniti segni che le preannunciano. Tutto il Principe è pieno di riferimenti alle illusioni ottiche della politica alla luce dell’amara considerazione che la maggior parte degli uomini riconosce i problemi quando questi sono cresciuti al punto che non è quasi più possibile risolverli. I grandi rivolgimenti non nascono dalla fortuna ma dalla mancanza di osservazione e dalla incapacità di costruire in anticipo argini abbastanza saldi da resistere allo straripare del fiume, quando la piena finalmente arriva. Ma la descrizione machiavelliana dell’Italia alla vigilia della discesa di Carlo VIII, con la sua amara ironia su «i grandi spaventi, le sùbite fughe e le miracolose perdite», potrebbe essere trasferita senza difficoltà all’euforia dei mercati finaziari prima che scoppiasse la bolla. Nessuno ha visto niente. Eppure i segnali c’erano tutti: mentre la prudenza politica – lamenta Machiavelli – consiste precisamente nella capacità di leggere in anticipo gli indizi.
È questo il passo preliminare per chiunque voglia uscire da una crisi: individuare i punti deboli e da lì muovere per rimediare al disastro presente. Nel caso di Machiavelli questa ricerca dell’origine del male si concretizzò in un processo di riforma militare, per dare a Firenze un’armata di soldati reclutati nel contado con cui sostituire le inaffidabili e poco combattive truppe mercenarie. Ma l’altra lezione di Machiavelli di fronte al tracollo italiano è che in casi come questi i palliativi e i piccoli correttivi non servono: proprio come non serve “temporeggiare” un problema senza mai affrontarlo. A una crisi di sistema bisogna rispondere con una riforma di sistema: oggi come ieri.
Rispetto a noi, Machiavelli aveva ben chiaro a chi i suoi contemporanei avrebbero dovuto guardare per uscire dall’impasse. Il modello di riferimento da tenere costantemente sotto gli occhi erano i Romani: alla cui storia è dedicata infatti la più importante e ambiziosa delle sue opere, i Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio. Anche qui il bersaglio privilegiato di Machiavelli sono i sistemi chiusi che si credono invulnerabili perché artificialmente separati dall’esterno ma che in realtà, alla prova dei fatti, sono quelli che sperimentano sempre le crisi più violente. Una generazione dopo il primo viaggio di Colombo, i Discorsi insegnano che è impossibile richiudersi su se stessi e, tagliati i rapporti col resto del mondo, vivere sereni in un’armonia artificiale, perché, volenti o nolenti, in un universo interconnesso questa separatezza potrà venire rimessa in discussione quando meno lo si vorrebbe.
Non è strano, allora, che nell’opera di Machiavelli l’antimodello per eccellenza sia incarnato da Venezia: ovvero dalla Repubblica che i suoi contemporanei più apprezzavano, in quanto priva di conflitti interni e unica compagine statale ad aver retto alle armate degli ultramontani, sfruttando la condizione invidiabile del suo sito per tenersi fuori dalle guerre d’Italia dopo la terribile disfatta subito ad Agnadello nel 1509. Machiavelli non la pensa così e si sforza di dimostrare come il prezzo pagato da Venezia per la sua proverbiale concordia, fondata sul rifiuto di accogliere i nuovi arrivati e gli stranieri nelle proprie istituzioni politiche, si rivelasse a conti fatti troppo alto. Se un’attenta profilassi sociale aveva infatti messo la città al riparo dalle contese, l’armonia che ne era conseguita era solo apparentemente invidiabile perché aveva privato la Repubblica di altrettanti potenziali soldati, rendendola incapace di difendersi. Chi si chiude è destinato a soccombere. E senza la laguna e il mare la Serenissima sarebbe da tempo defunta.
Opposta era la condizione di Roma. Qui l’apertura verso gli stranieri e la tendenza ad accordare a tutti i popoli sottomessi la cittadinanza avevano rinfocolato per secoli le lotte politiche tra patrizi e plebei, ma contemporaneamente avevano assicurato alla Repubblica una consistente massa di cittadini-soldati, permettendole di stabilire la propria supremazia sull’intero bacino del Mediterraneo. Proprio il successo di Roma aveva dimostrato come i conflitti sociali, quando le parti in lotta si astengono dalla violenza, siano tutt’al più «un inconveniente necessario a pervenire a romana grandezza».
Alla fine, certo, anche Roma era entrata in crisi e le sanguinose guerre civili del I secolo a.C. avevano consegnato una Repubblica esausta nelle braccia di Augusto. In questo caso la lezione che i Discorsi ne traggono è particolarmente pessimistica: all’origine della decadenza vi sarebbe stato infatti un irreversibile mutamento dei costumi. Ma mentre i Romani incolpavano della crisi il contatto corruttore con i piaceri e le mollezze dell’Oriente, Machiavelli avanza una tesi diversa, fondata su un’acuta notazione dello storico Sallustio. Il tracollo della morale dei padri sarebbe stato un effetto della scomparsa della paura. Finchè infatti i Romani erano stati tenuti sotto scacco dalla minaccia di Cartagine, le ricchezze affluite dalle province orientali non avevano avuto nessun effetto sui loro costumi; ma non appena il nemico era stato sconfitto, nessuno si era più preoccupato del bene comune e di colpo non c’era stato più argine al vizio e alla corruzione. Come dire che Roma si era mantenuta temperante solo per effetto di una costrizione esterna, e che – venuto meno l’effetto moralizzatore della paura – persino la proverbiale virtù degli Scipioni e dei Decii si era dissolta nell’aria.
La storia non si ripete mai uguale. Eppure, ventuno anni dopo gli eventi miracolosi del 1989, Machiavelli obbliga i suoi lettori a domandarsi se l’attuale crisi della moralità pubblica, in un tempo di banchieri fraudolenti e di politici incapaci di distinguere tra un summit internazionale e una festa di addio al celibato, non abbia a che fare anche con la fine della minaccia del grande Orso russo. Dobbiamo rassegnarci a credere, insomma, che l’età d’oro del capitalismo – per mezzo secolo capace di conciliare crescita, profitti, benessere generalizzato e mobilità sociale – sia stata solo un risultato imprevisto della Guerra fredda? E che, dissolta l’Urss, quello stesso sistema si sia scoperto incapace di regolarsi da solo, in assenza di una minaccia esterna? È possibile che Machiavelli non avrebbe spiegato molto diversamente la più grande crisi economica dopo quella del 1929. Ma se avesse ragione, sarebbe un pessimo segno: perché in tutta la sua opera l’autore del Principe ripete costantemente che, quanto più gli stati sono corrotti nel profondo, tanto più si dimostrano incapaci di tollerare quella amara terapia che pure, in questi casi, sarebbe indispensabile per rimetterli in sesto.
No, non c’è ragione di essere ottimisti guardando all’Italia timorosa e gaudente di oggi con il Principe e i Discorsi. Ma, per fortuna, una delle grandi virtù dell’uomo Machiavelli, che il fiorentino non ha mai smesso di comunicare ai suoi lettori attraverso la pagina scritta, è la determinazione a lottare e a non darsi per vinti prima del tempo. Nei prossimi anni politici, economisti e semplici cittadini chiamati a reinventare le regole del capitalismo e della democrazia del XXI secolo ne avranno un gran bisogno.
Il SOle 24 Ore 08.08.10