politica italiana

"Cossiga, l'uomo che si inventò quattro vite diverse", di Mario Calabresi

Francesco Cossiga si è spento in giorni che gli sarebbero stati congeniali, giorni in cui il Parlamento è tornato al centro dell’attenzione, in cui le manovre politiche abbondano, in cui deputati e senatori si spostano e si contano, giorni in cui si creano nuove fedeltà e si costruiscono alleanze inedite. Giorni in cui si sarebbe appassionato a far emergere contraddizioni, a presentare interrogazioni parlamentari urgenti, a dare interviste pepate e ad alzare il dito citando precedenti e consuetudini a un mondo politico che sembra sempre più ignorare le regole del gioco. Ma questi giorni sono arrivati troppo tardi.

Francesco Cossiga non era capace di stare fermo e gli ultimi due anni per uno come lui erano stati privi di ossigeno, con un Parlamento completamente esautorato dal governo e dai voti di fiducia e con un’informazione totalmente concentrata sul presidente del Consiglio.

Due anni in cui il Presidente emerito della Repubblica – una carica inventata e fortemente voluta da lui, che ne aveva perfino stabilito diritti, simboli e riti – aveva trovato sempre meno spazio per manovrare e per far sentire la sua voce.

A rileggere la sua biografia, fuori dalle ricostruzioni romanzate o dalla fantapolitica, si scorgono almeno quattro stagioni in cui è stato protagonista assoluto, quattro decenni in cui è riuscito a stare al centro della scena. Negli Anni Settanta è il giovane ministro dell’Interno che si confronta con il movimento del ’77 conquistandosi l’appellativo di Kossiga – un nome che sui muri viene scritto, oltre che con la «K», con la doppia «s» runica, a evocare il nazismo -, che combatte il terrorismo brigatista (con cui cercherà poi di confrontarsi per comprenderne radici e comportamenti ma senza mai giungere a regalarci un di più di verità) e vive tutta la stagione del rapimento e dell’omicidio di Aldo Moro, da cui esce distrutto e dimissionario.

La seconda stagione, un decennio dopo, lo vede protagonista assoluto come il capo dello Stato che prevede e annuncia la fine della Prima Repubblica, che «piccona» quel sistema dei partiti cieco e morente con esternazioni continue e sempre più irrituali. Lasciato il Quirinale sembra destinato alla pensione, ma alla fine degli Anni Novanta è capace di reinventarsi e di chiudere una stagione: grazie alle sue intuizioni e alla capacità di manovrare in Parlamento fonda un nuovo piccolo partito e porta a Palazzo Chigi Massimo D’Alema, il primo post-comunista a diventare primo ministro. Il salotto di casa sua e lo studio a Palazzo Giustiniani sono meta di un via vai di politici, ministri e giornalisti che comincia all’alba con infinite discussioni e la dettatura di dichiarazioni alle agenzie e si conclude sempre con la complicità del suo whiskey irlandese. In quei giorni, in cui chi scrive era un cronista d’agenzia che veniva svegliato dalle sue telefonate regolarmente prima delle sette del mattino, appariva appagato dall’idea di aver contribuito, lui democristiano, ad archiviare una fase storica e ad aprirne un’altra in cui non ci sono più veti e preclusioni verso gli ex comunisti e gli ex fascisti.

Con il ritorno di Berlusconi al governo nel 2001 sembra perdere smalto, ma ancora una volta rinasce e questa volta trasforma il suo piccone in un fioretto, con cui si esercita a disturbare tutto ciò che appare troppo solido e sicuro: manovra in Europa, saltando dai Paesi Baschi (dove si divertiva a far impazzire Aznar) alla Germania, dal Belgio alla Catalogna per frenare prima l’ingresso di Berlusconi poi quello di Fini nel Partito Popolare Europeo, presenta interrogazioni parlamentari e rilascia interviste e dichiarazioni contro chiunque non accetti il suo gioco, diventando l’incubo di ministri e presidenti.

Ma sono gli anni in cui cominciano a farsi sentire la stanchezza e le nostalgie – avvisato che su un muro del Lungotevere a Roma è tornata una scritta contro di lui, che ha la «K» e la doppia «S», subito si entusiasma e spedisce un uomo del suo staff a fotografarla -, in cui si mette a giocare con la tecnologia, in cui si moltiplicano i cartelli in casa, con cui si chiede di non appoggiare armi da fuoco sul tavolino dell’ingresso o con cui avvisa chi solleva il telefono di essere prudente perché potrebbe essere intercettato. La fine del primo decennio del nuovo millennio è la meno adatta ad un politico che ha bisogno di acque sempre in movimento per nuotare al meglio, tutto sembra paralizzato dal berlusconismo e gli spazi per lui sono sempre più angusti. Ma è anche una stagione nuova, in cui i riferimenti internazionali sono ormai cambiati, dove l’atlantismo, vera stella polare di Cossiga, non è più nemmeno in cima all’agenda del nuovo Presidente americano che guarda invece all’Asia, in cui l’ex Presidente ha ormai perso i suoi interlocutori tradizionali in Europa e in cui gli italiani sembrano volere una politica efficiente e semplificata e non sopportano più i giochi di Palazzo.

Poi arriva l’estate in cui la maggioranza più solida della storia della Repubblica si mette a scricchiolare e salta in aria, la battaglia parlamentare si fa incandescente e si torna perfino a parlare di impeachment di un capo dello Stato, in cui i veleni, i dossier e le veline la fanno da padrone, un’estate ideale per chi sapeva muoversi più veloce di chiunque altro. Ma non è più quel tempo e forse il sistema non avrebbe retto altre manovre e giochetti, bisognoso com’è invece di riforme, di chiarezza e di governo.

Ora ci si chiederà quali segreti si è portato con sé, quali rivelazioni avrebbe potuto ancora fare sulla stagione del terrorismo e delle stragi, sulla morte di Moro, sui rapporti tra i due blocchi nell’era della Guerra Fredda, su Gladio e sulle deviazioni dei servizi segreti. Impossibile dare una risposta, forse aveva ben meno misteri di quelli che gli sono stati attribuiti, forse nel fiume di parole che ha sempre pronunciato c’è già davvero tutto quello che sapeva, ma certamente se c’era qualcosa che aveva giurato a se stesso dovesse andarsene con lui allora non sarebbero serviti a nulla altre mille interviste o decine di libri. È bene che siano state rese pubbliche subito le lettere che ha lasciato alle più alte cariche istituzionali (quella al presidente del Consiglio, non ancora pubblicata, ricalcherebbe le altre), per evitare nuove leggende velenose e perché certo non abbiamo bisogno di altri misteri e di rivelazioni tardive o a getto continuo. È tempo che la storia d’Italia venga studiata con calma, per rimettere in ordine verità e memorie, nel rispetto di chi ci ha lasciato ieri e di tutti quelli che se ne sono andati prima di lui.
La Stampa del 18 agosto 2010