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"Africa, non bisogna chiudere gli occhi", di Mario Calabresi

Più di quarant’anni fa il mondo scoprì le immagini del Biafra: bambini denutriti, scheletrini con il pancione gonfio. Erano le grandi carestie a cavallo degli Anni 60 e 70 che sconvolsero l’Occidente.

Quelle prime foto in bianco e nero portarono nelle nostre case il significato della morte per fame, della malnutrizione cronica, della siccità che distrugge ogni possibilità di sopravvivenza. Quelle stesse scene le avremmo riviste vent’anni dopo in Somalia, poi in Etiopia e pochi anni fa in Sudan. Allora l’Africa era lontana dalle nostre vite e molte volte in questi quattro decenni il mondo si mobilitò commosso portando aiuti e inviando dottori e medicinali.

Oggi l’Africa arriva ogni giorno sulle nostre coste, la fame la potremmo leggere guardando i volti di chi attraversa il Mediterraneo stipato in un barchino e spesso perde la vita nel lungo viaggio, ma non sempre ci riusciamo: la paura dell’immigrazione, l’eccesso di immagini e la nostra crisi economica ci chiudono gli occhi.

Ho parlato con un medico che ha combattuto la grande carestia del Corno d’Africa nel 1972 e ’73, ricorda bambini rovistare nella spazzatura per cercare bucce di banana, ricorda famiglie che cercavano di sfamarsi con le foglie o mangiavano crudi i semi che erano stati appena distribuiti per la semina. Ricorda l’inedia e gli occhi vacui di chi ormai non ce la fa più e mi ha spiegato che vediamo solo donne e bambini perché gli anziani se ne sono andati per primi.

Oggi sappiamo che sta succedendo di nuovo e in proporzioni e con una violenza che non si vedeva da molto tempo. Gli abitanti di interi villaggi sono tornati a percorrere a piedi piste di terra lunghe centinaia di chilometri nella speranza di incontrare acqua o cibo. Sono migrazioni – come vi raccontiamo in queste pagine e come testimoniano i primi operatori umanitari che riescono a lavorare laggiù – in cui si abbandona per strada ogni avere e si cerca soltanto di sopravvivere.

Tre anni fa ho incontrato una famiglia che era fuggita dalla guerra del Ruanda, avevano vissuto per anni in un campo profughi prima di ottenere lo status di rifugiati e approdare in America. Arrivarono all’aeroporto di Newark nel New Jersey – padre, madre e quattro figli – solo con una busta in mano. Gli chiesi dove fossero i bagagli e loro mi risposero che non avevano più nulla da quattordici anni, ma il padre serio aggiunse: «Però pensiamo di essere fortunati, molto fortunati, perché abbiamo ancora la vita». E’ la frase che più mi risuona in testa ogni volta che parliamo delle nostre difficoltà quotidiane e perdiamo di vista ciò che conta davvero.

In questo momento nel Corno d’Africa ci sono 12 milioni di persone che sono colpite dalla carestia e non hanno cibo, oltre un milione di bambini rischia la vita. Per questo abbiamo pensato che fosse arrivato il momento di permettere a chi desiderasse fare qualcosa di potersi muovere, di sentirsi utile. Abbiamo ricevuto numerose sollecitazioni negli ultimi giorni e prima di lanciare una sottoscrizione abbiamo voluto individuare un progetto serio in cui i soldi dei lettori della Stampa potessero fare davvero la differenza ed essere ben spesi. Adesso lo abbiamo trovato: è un reparto pediatrico che si sta costruendo in Somalia proprio per assistere bambini denutriti. Lo sta costruendo un’associazione torinese, ma non ha fondi sufficienti. Grazie a Specchio dei tempi siamo sicuri che si farà in fretta a terminarlo. Ma se la vostra generosità e le sottoscrizioni saranno tante, allora siamo pronti a trovare altri progetti e altre iniziative pratiche e ben fatte da sostenere. Grazie a tutti quelli che saranno con noi.

da www.lastampa.it