attualità, politica italiana

"In cerca di un'idea di futuro", di Mario Calabresi

La crisi arrivata al suo culmine italiano nelle ultime settimane è cominciata tre anni fa, quando le televisioni di tutto il mondo iniziarono a trasmettere le immagini di persone con la faccia stravolta e uno scatolone tra le mani che uscivano da un grattacielo sulla Settima Avenue di Manhattan. Erano i lavoratori del quartier generale newyorchese di Lehman Brothers che avevano appena avuto la notizia del fallimento della banca d’affari americana.
Da quel momento il nostro mondo è profondamente cambiato. Chi ci governa e chi ha governato l’economia italiana in tutto questo tempo ha ripetutamente ridimensionato il problema e sembra essersene accorto soltanto nelle ultime settimane.

Certamente in questi giorni c’è stata un’escalation in tutto il pianeta e la situazione si è fatta drammatica, ma sostenere che non era prevedibile quando si ha il quarto debito pubblico del mondo e si ha una crescita bassissima non è credibile.

E non dimentichiamo che la crescita dello spread tra i titoli di Stato italiani e i Bund tedeschi è cominciata dopo l’emergere di divergenze e tensioni tra il nostro premier e il ministro dell’Economia, così come il deficit di credibilità è anche figlio di una manovra – quella di luglio – che rinviava troppo in là nel tempo i suoi effetti.

La manovra straordinaria varata in questa drammatica vigilia di Ferragosto ha il pregio di riconoscere la gravità della situazione, di provare a dare una risposta forte e di metterci – auspicabilmente – al riparo da nuovi attacchi speculativi e da ondate di vendite dei nostri titoli e delle nostre azioni.

Agli aspetti positivi, che si possono riassumere nella velocità con cui sono state fatte scelte altamente impopolari come spiega in questa pagina Luca Ricolfi, si accompagnano una serie di preoccupazioni e di amarezze di segno diverso tra loro.

La prima è quella di tutti coloro che negli ultimi anni avevano lanciato l’allarme sulla crisi e che erano stati regolarmente bollati come disfattisti e anti-italiani. Avere ragione col senno di poi non è mai di grande consolazione, soprattutto se si pensa che avere aspettato tre anni non ha che aggravato la situazione.

Chi si vede alzare le tasse (quando ancora in primavera si riproponeva la favola di un abbassamento delle aliquote) non può fare a meno di chiedersi se tutto questo non poteva essere evitato: con interventi sulla spesa più incisivi e tempestivi e favorendo la crescita.
Sì perché il vero problema italiano è quello di non riuscire a crescere e questa manovra, come le precedenti, non contiene una ricetta chiara e riconoscibile di sviluppo, né liberista né keynesiana. Mancano ancora le riforme, se si fa eccezione per gli interventi sul mercato del lavoro – che puntano a renderlo un po’ meno ingessato – e quelli sul sistema pensionistico. Ci preoccupiamo di tenere sotto controllo i conti, ma manca un’idea di futuro, un disegno per il Paese di domani.

Mettendo le mani in tasca in maniera pesante a quegli italiani che le tasse le hanno sempre pagate ci saranno inevitabilmente meno soldi da spendere: si taglia un pezzo di domanda e il rischio non è solo quello di non garantire nuova crescita ma di cominciare a decrescere.
Se da un lato nessuno si può tirare indietro in momenti di grave crisi, così come è giusto chiedere maggiori sacrifici a chi più ha, dall’altro si consolida ancora una volta l’iniquità di colpire sempre gli stessi. Perché il cosiddetto «contributo di solidarietà» (da considerarsi come un aumento delle aliquote più alte, capace di regalarci tasse record) viene scaricato non tanto sugli italiani più ricchi – come si cerca di far credere – ma su quelli più controllati e colpibili, quelli che dichiarano completamente il loro reddito, i cui guadagni sono tutti alla luce del sole.

In molti si sono già chiesti perché si sia deciso di intervenire solo sui redditi da lavoro e non sui patrimoni, come se il possessore di dieci appartamenti sia da considerare più sacro e intoccabile del padre di famiglia che porta a casa cinquemila euro al mese. Così come in molti si stanno chiedendo in queste ore perché mai i tagli alle poltrone si concentrino su Province e Regioni e non sui parlamentari nazionali o perché deputati e senatori non paghino tasse sulle loro liquidazioni, mentre il Tfr (tassato) dei dipendenti pubblici verrà pagato con due anni di ritardo.

La manovra andava fatta, le medicine amare non erano più rinviabili e ognuno di noi dovrà fare la sua parte (comprese le opposizioni e le parti sociali), ma i tagli andrebbero sempre accompagnati da misure di stimolo e di rilancio, da investimenti di lungo periodo, o perlomeno da quelle riforme a costo zero che non richiedono nuove spese ma il coraggio di scontentare settori di popolazione.

La sensazione che questo governo dell’economia ci trasmette è invece di profonda sfiducia nell’Italia, quasi che il declino sia una condizione obbligata, da cui è impossibile sfuggire e a cui è inutile opporsi.

Un Paese però non può pensare di vivere solo in difesa, di chiudersi in una trincea sempre più stretta e soffocante, deve scommettere su se stesso, coltivare non solo la paura ma anche la speranza. Deve puntare sui giovani, fare investimenti in quella direzione, solo così tagli e tasse possono apparire un po’ più accettabili. Ma se il disegno e il futuro mancano, allora restano solo la paura e l’incertezza e nuove tensioni a dividere un italiano dall’altro.

La Stampa 14.08.11

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Il rischio di sacrifici inutili”, di LUCA RICOLFI

Lì per lì, sentite le prime notizie sulla super-manovra, mi sono detto: saranno pure sacrifici, e sacrifici alquanto impopolari, ma meglio tardi che mai. In fondo erano almeno tre anni, dal fallimento di Lehman Brothers nel 2008, che quasi tutti gli analisti indipendenti scongiuravano il governo di non mettere la testa sotto la sabbia, di smetterla con gli annunci e le dilazioni (vedi l’annacquamento del federalismo), di agire subito e con determinazione. Ora anche Berlusconi e Tremonti l’hanno capita, e si apprestano ad affrontare i gravissimi problemi della nostra economia. Spiace riconoscerlo, ma ai mercati è riuscito quello che alle menti illuminate dei riformisti di destra e sinistra non era mai riuscito: convincere un governo immobilista (come gli ultimi cinque, dal ‘98 a oggi) che non si può restare oltre con le mani in mano, paralizzati dalle divisioni e dagli interessi privati del premier. Poi però, accanto a questo sentimento di relativa soddisfazione, se ne è installato un altro, di segno opposto. Che cosa mi ha fatto cambiare atteggiamento?

In primo luogo, la faccia tosta di Berlusconi e Tremonti, che – dopo aver per anni disprezzato e sbeffeggiato chiunque osasse mettere in dubbio la solidità dei conti pubblici italiani – ora ci raccontano la favoletta secondo cui «la situazione è cambiata», la tempesta che ha investito borse e titoli di Stato «non era prevedibile», e via cadendo dalle nuvole.

Eh no, tutto si può dire ma non che non foste stati avvertiti. La stragrande maggioranza degli studiosi, in questi anni, mesi, settimane e giorni era assolutamente concorde sulla diagnosi di base: i conti pubblici italiani non sono affatto in sicurezza, l’entità del nostro debito pubblico ci rende permanentemente vulnerabili, la manovra varata un mese fa era una presa in giro dei mercati e delle istituzioni europee, perché rimandava l’85% dell’aggiustamento al 2013-14, quando non si sa nemmeno chi governerà, né di conseguenza si può avere la minima garanzia che rispetterà gli impegni presi oggi.

Ricordate lo «scalone» delle pensioni? Anche allora, eravamo nel 2004, Tremonti lo varò per legge rimandandone però l’applicazione al 2008, e il governo successivo – come si poteva facilmente prevedere – se lo rimangiò in un sol boccone. E anche per quanto riguarda la manovra di luglio, che il governo si è finalmente deciso ad anticipare di un anno, vorrei ricordare quello che Roberto Perotti e Luigi Zingales scrivevano più di un mese fa, quando era già del tutto evidente che i mercati non credevano alle vaghe promesse del nostro governo: «Esiste quindi una sola via d’uscita, che ci metta al riparo dalla volatilità del mercato: raggiungere il pareggio di bilancio nell’arco diciamo di un anno».

Se anziché accontentarsi della solidarietà e dell’approvazione dei colleghi europei, i nostri governanti avessero preso un po’ più sul serio i mercati, avrebbero agito molto prima, e oggi il prezzo che sono costretti a chiedere ai cittadini sarebbe minore. Insomma, aver rimandato i sacrifici significa averli aggravati. Questa è una gravissima responsabilità, un errore che una classe dirigente degna di questo nome non avrebbe fatto. Anche se va aggiunto, per amore di verità, che la timidezza del governo è anche il risultato dell’immaturità dell’opposizione: se Tremonti e Berlusconi avessero agito in tempo e con il rigore richiesto dalla situazione, opposizioni e parti sociali li avrebbero massacrati.

E’ paradossale, e duro da accettare, ma la lezione di questi giorni è anche questa: la paura suscitata dai mercati rende possibili oggi al governo scelte che – senza quella paura – sarebbero state semplicemente impraticabili, perché avrebbero richiesto un’opposizione seria, disponibile al dialogo sulle riforme economico-sociali anziché ossessionata dall’incubo della democrazia in pericolo.

Ma non è solo la sfrontatezza del governo che mi ha fatto cambiare atteggiamento sulla manovra. E’ la lettura dei suoi contenuti che mi ha lasciato alquanto perplesso. E questo sotto almeno tre profili: equità, rigore, futuro.

Equità. Ci sono anche cose ragionevoli, per non dire sacrosante, ma la misura centrale, il «contributo di solidarietà» sui redditi superiori a 90 mila euro, è profondamente ingiusta. Essa infatti colpisce una minoranza di cittadini (poco più dell’1%) che ha due sole colpe: guadagnare più di 4000 euro netti al mese, e pagare le tasse. A parte l’ipocrisia della parola solidarietà (la solidarietà non può essere coatta), un prestito semantico necessario per ingraziarsi i sindacati e nascondere che si tratta – né più né meno – di un innalzamento dell’aliquota marginale Irpef, la misura è iniqua perché i ricchi «nominali» sono una piccola frazione (tra il 5% e il 10%) dei ricchi «reali».

Bastano pochi elementari confronti – ad esempio sui consumi di lusso, o sui patrimoni finanziari e immobiliari – per capire che almeno il 90% dei veri ricchi sono evasori fiscali, che vivono nell’abbondanza ma dichiarano redditi da ceto medio. Meglio, molto meglio anche sotto il profilo del gettito, sarebbe stato agire con una piccolissima imposta sul patrimonio (tipo il 5 per 10.000). Almeno avrebbero pagato anche gli evasori.

Così, sempre sotto il profilo dell’equità, sarebbe stata doverosa una esplicita differenziazione fra territori-formica, che producono molto ed evadono poco, e territori-cicala, che producono poco ed evadono molto. Alle amministrazioni più virtuose, proprio perché hanno già razionalizzato la spesa, non si possono imporre gli stessi tagli che si chiedono alle amministrazioni che hanno ancora un lungo cammino di risanamento da compiere.

Rigore. Qui le obiezioni sarebbero moltissime, per cui mi limito a quattro esempi: manca un piano di dismissioni del patrimonio pubblico; manca un intervento incisivo sulla previdenza (in particolare su chi è andato in pensione prima dei 50 anni); diverse misure, a partire dal contributo di solidarietà, non hanno carattere strutturale; l’idea di togliere le tredicesime ai dipendenti delle amministrazioni pubbliche che spendono troppo è peregrina in assenza di obiettivi di budget ben studiati e se prima non si ristabilisce il «comando» nei pubblici uffici, due precondizioni che mancano del tutto.

Futuro. Ma è soprattutto sulle prospettive future del Paese che la manovra, così come si profila in queste ore, appare più deludente. Il nostro problema centrale, la nostra palla al piede, è il debito pubblico. Pensare di risolvere questo problema senza accelerare la crescita, senza portarla dallo stentato 1% attuale ad almeno il 2%, è pura illusione. Se non torneremo a crescere a un ritmo decente non ci saranno né posti di lavoro per i giovani e per le donne, né soldi per completare il nostro stato sociale, che è ipertrofico dal lato delle pensioni ma rachitico su tutto il resto.

Ma nella manovra, per riconoscimento unanime, quel che manca sono proprio le due misure fondamentali per la crescita: riduzione della pressione fiscale sui produttori, abbattimento del numero di adempimenti per le imprese. E al loro posto, incredibilmente, compaiono ulteriori aggravi per lavoratori autonomi e società: dalla «rimodulazione» degli studi di settore per i primi, alla riduzione – per le seconde – della possibilità di abbattimento delle perdite.

Può darsi che quel che non si vede oggi spunti domani dalla delega fiscale. Può darsi che il governo si decida ad alzare l’Iva sui beni di lusso, a ridurre la selva delle esenzioni ed agevolazioni dei regimi fiscali. Ma se una parte cospicua di questi risparmi non verrà usata per dare ossigeno all’Italia che produce e che compete, se – come purtroppo è avvenuto finora – ogni centesimo di gettito recuperato andrà a finire nel calderone del bilancio pubblico senza alleggerire la pressione fiscale sui produttori, allora temo che anche i sacrifici che ora ci vengono richiesti finiranno per essere stati vani.

La Stampa 14.08.11