attualità, politica italiana

"Marx e i vetturini", di Michele Prospero

Anche a Londra nel 1853 il Parlamento discuteva provvedimenti urgenti per diminuire il debito pubblico e abbassare l’interesse sui titoli di Stato. Tra le misure per rilanciare lo spirito d’intrapresa, in agosto la camera approvò una legge sulle carrozze che introdusse una nuova tassa e innalzò a reato lo sciopero dei vetturini.
Marx prese la vicenda dei vetturini inglesi come una occasione per riflettere sulla controversia tra la concorrenza e il monopolio. «Non è questa la sede per dirimere la questione dell’intervento statale nell’iniziativa privata», scriveva. Si trattava di una faccenda di grande portata teorica, difficile da risolvere con un articolo. Nella sua corrispondenza londinese, senza scavare più a fondo, Marx annotava: «Ci basta soltanto osservare che questa legge è stata approvata in un Parlamento liberista. Ma si dice che nel settore delle vetture da nolo non vi è libera concorrenza, bensì un monopolio». Questa asserzione non convinceva Marx che segnalava al riguardo le contraddizioni del vangelo liberista.
«Si tratta di una logica bizzarra. Prima si impongono una tassa chiamata licenza su un determinato settore commerciale, e speciali misure di polizia, e poi si afferma che, a causa di questi stessi gravami che sono stati imposti, lo stesso settore non ha più il carattere della libera concorrenza ed è invece stato trasformato in un monopolio di Stato».Questo è il paradosso del regime della licenza che con la concessione già data a caro prezzo o con l’allargamento delle autorizzazioni a nuove figure contiene una forzatura della logica della libera concorrenza che a rigore non contemplerebbe licenze esose che elevano un regime di monopolio. Certo, i clienti dei vetturini non appartenevano alle classi più popolari. E Marx ironizzava sul «povero aristocratico che è obbligato a servirsi di una vettura di piazza anziché di un cocchio di sua proprietà». Ma i modi con cui il Parlamento trattò la vicenda, con toni e metafore facili da dare in pasto ai giornali, lo colpirono molto. Le «riduzioni liberiste» che rendevano più a buon mercato talune merci e servizi gli parevano delle esche grazie alle quali venivano sfornate al pubblico delle piccole concessioni simboliche e poi però restavano intaccate le potenze economiche egemoni (la City, i ceti industriali e mercantili).
Gladstone, in un discorso durato 5 ore, aveva sostenuto che una tassazione sui titoli di Stato e sui capitali finanziari rappresentava un attentato alla lealtà pubblica che legava Stato e contribuenti. Non bisognava mai rompere (questo era il dogma anche allora riverito) il patto di fiducia con gli speculatori finanziari. I giocolieri del tesoro pubblico riuscivano sempre ad accollare sul lavoro i costi dello Stato e in più aggiungevano qualche diversivo per coprire meglio gli interessi delle potenze dominanti. I vetturini dovevano giocare questo ruolo scenico, a presidio di una vecchia consuetudine di racimolare le tasse proprio da chi possedeva meno ricchezza.
Di tassazione sui redditi e sui patrimoni reali neanche a parlarne perché, intuiva Marx, «dalla tassazione progressiva si cade direttamente in una sorta di socialismo molto incisivo». È chiaro che nelle questioni del fisco si nascondono ancor oggi i veri nodi del conflitto sociale moderno. Ed anche gli oneri per l’uscita dalla crisi sono connessi alla grande vicenda dell’equità fiscale. In un Paese in cui il tassista come l’orefice, il professionista come l’imprenditore si presenta come un «testimonium paupertatis» e denuncia redditi più consoni a chi versa in una indigenza cronica è evidente che sono spezzati tutti i vincoli di cittadinanza e coesione sociale. Il tassista blocca le città con minacce e sabotaggi ogni volta che si prospettano degli accertamenti delle entrate effettive o che si adombrano nuove licenze che abbassano i ricavi e accentuano la competizione. La ribellione selvaggia contro le nuove licenze che incutono timori e incertezza di reddito è il simbolo di una parte di società chiusa e corporativa che rifiuta di misurarsi con i costi della crisi. Le liberalizzazioni sono un metodo per immettere i servizi sul mercato, poi però occorre una politica per ripensare lo sviluppo, per definire il rapporto tra la grande distribuzione e la piccola attività, tra le tariffe e i costi, tra le professioni liberali e le imprese. Altrimenti, senza politica è solo caos e disobbedienza. Mentre tutto si agita e arde nella enorme polveriera della concorrenza che sfida gli interessi consolidati di professionisti, di lavoratori autonomi e del commercio, grandi potenze economiche, patrimoni immensi, fortune sconfinate dormono ancora indisturbati. Per questo occorre che i tassisti non siano soltanto un’esca, come furono i vetturini del 1853.

L’Unità 19.01.12