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“Guerre imperiali” di Lucio Caracciolo

Barack Obama è stato rieletto per salvare l’America da un’altra recessione, non per cambiare il mondo. E lui lo sa bene. In cima alla sua agenda tre parole: jobs, jobs, jobs. Ma posti di lavoro e benessere sociale non sono funzione solo del ciclo e della politica economica. Sempre più dipendono dal modo in cui l’America sta al mondo. Dalle relazioni politiche, commerciali e finanziarie con il resto del pianeta, Cina in testa, che non accetta più il Washington consensus e non dimentica che la crisi in corso è nata a Wall Street. Ma anche dalle guerre che l’America deve o dovrà combattere, anche se ne farebbe volentieri a meno. A cominciare dalla guerra al terrorismo, giunta al suo undicesimo anno. Per continuare con il possibile attacco preventivo all’Iran, d’intesa o meno con Israele, che Obama farà di tutto per evitare ma che potrebbe scoppiare per decisione di Gerusalemme e per il rifiuto iraniano di negoziare sul serio.
La differenza fra politica interna e politica estera è che l’agenda domestica si può largamente progettare, mentre il mondo è troppo vasto e imperscrutabile per chiunque pretenda di modellarlo. Fosse anche il presidente degli Stati Uniti. Specialmente un leader al secondo mandato, eletto da un paese polarizzato fra destra nostalgica della superpotenza solitaria e solipsista che fu – reazionaria in casa e bellicosa nel mondo – e centro-sinistra che vorrebbe curare il malandato orto di famiglia e riportare a casa quanti più soldati possibile. Con le casse pubbliche semivuote e con un Congresso spaccato fra Camera in mano a repubblicani spesso estremisti e Senato a maggioranza democratica limitata. L’unico non indifferente vantaggio rispetto al primo quadriennio, è che Obama non può essere riconfermato, sicché deciderà senza farsi condizionare da pedaggi elettorali.
Ad oggi, l’agenda mondiale del presidente reca tre comandamenti. Primo: stabilire che cosa fare o non fare con la Cina. Secondo: decidere se attaccare o meno l’Iran, con o senza Israele. Terzo: adattarsi al terremoto in corso nella galassia islamica – le ormai autunnali “primavere arabe” – per cercare di influenzarlo e modulare di conseguenza la guerra al jihadismo, basso continuo dell’impegno militare a stelle e strisce. Con un occhio all’eurocrisi, se dovesse rimettere in questione non solo la stabilità sociale e geopolitica europea ma la ripresa dell’economia americana.
Quanto alla Cina. A Pechino si tifava Romney. Perché Obama appare ai “mandarini rossi” come un leader inaffidabile, che finge di dialogare mentre riarma Taiwan o li attacca sulla politica ambientale. Peggio: minaccia di trattare la Repubblica Popolare come un tempo l’Unione Sovietica, strigendo attorno a Pechino insieme agli alleati e a veri o presunti amici asiatici – Australia, Giappone, Corea del Sud, Vietnam, India – una cintura di sicurezza destinata a contenerne le ambizioni. Peraltro, oggi si apre il cruciale congresso del Partito comunista cinese, all’insegna di una lotta di potere che investe la nomenklatura e che ridefinirà l’approccio agli Stati Uniti e al mondo. Nei prossimi mesi, quando Obama avrà incontrato Xi Jinping, suo neo-omologo designato, potremo capire se i numeri uno e due al mondo sono destinati a cooperare o a scontrarsi.
Sul fronte Iran, Obama farà di tutto per non impelagarsi in un’avventura bellica dalle conseguenze potenzialmente disastrose. Una nuova guerra del Golfo rischierebbe di soffocare i sintomi di ripresa nell’economia americana, di stroncare la crescita asiatica, di sprofondare l’Europa nella depressione e nel caos. In questi ultimi mesi emissari della Casa Bianca hanno cercato di sondare la disponibilità di Teheran a un compromesso sul suo programma nucleare, in cambio della fine delle sanzioni e della riammissione della Repubblica Islamica nel circuito economico e politico internazionale. Ma Netanyahu, probabilmente il leader mondiale meno entusiasta del mancato cambio della guardia alla Casa Bianca, resta convinto che di pasdaran e ayatollah Israele non abbia il diritto di fidarsi. Le probabilità di una guerra che segnerebbe il secondo mandato di Obama, e non solo, paiono ad oggi superiori alle speranze di pace.
Intanto, la guerra al terrorismo continua. Il maggior successo del comandante in capo Obama è stata l’esecuzione di Osama bin Laden, insieme al ritiro dall’Iraq e al contenimento delle perdite in Afghnistan. Ma le conseguenze impreviste delle “primavere arabe” stanno aprendo nuovi fronti bellici. Ad esempio in pieno Sahara, dove una manciata di terroristi narcotrafficanti ha piantato il vessillo di al-Qa’ida nel Mali settentrionale per farne una base del jihadismo globale. Questa almeno è la visione dominante a Washington e a Parigi (ex capitale coloniale), sancita dal Consiglio di Sicurezza dell’Onu, che ha dato via libera a una guerra di riconquista del Sahara perduto, teleguidata da Stati Uniti e Francia. Più in generale, le convulsioni che stanno scuotendo i paesi arabi e islamici costringono Obama a inseguire gli eventi. A conferma che Washington non è in grado di il determinare il futuro del Medio Oriente.
Vent’anni fa Henry Kissinger stabilì i termini del dilemma strategico Usa dopo la guerra fredda: «Viviamo l’epoca in cui l’America non può dominare il mondo né ritrarsene, mentre si scopre a un tempo onnipotente e totalmente vulnerabile». Undici anni dopo l’11 settembre, dal suo studio ovale Obama, a dispetto dell’irrinunciabile grandiosità retorica, continua a scrutare l’orizzonte attraverso quel prisma. L’audacia della speranza convive con la cognizione della realtà.
La Repubblica 08.11.12
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IL TRIONFO DI OBAMA “IL MEGLIO DEVE VENIRE”, di FEDERICO RAMPINI
Ha l’umiltà del condottiero Barack Obama, quando sale sul palco al McCormick Place di Chicago, e vede ai suoi piedi un pezzo di quell’esercito imponente che ha combattuto con lui. E’ trasportato dalle note di Stevie Wonder e dall’urlo di folle impazzite: quella che per due ore ha cantato e ballato a ritmo di blues dentro il palazzo dei congressi; quell’altra che s’ingigantiva là fuori man mano che il popolo di Obama affluiva dai quartieri neri della sua città; quelle che da Times Square di New York al giardino della Casa Bianca seguivano a distanza davanti ai maxischermi le vittorie cruciali (boati in diretta per la Virginia e l’Ohio, i due colpi del ko decisivo). E’ solo il secondo democratico ad avere conquistato la rielezione dalla fine della guerra mondiale, e per questo discorso ritrova tutta la solennità, il carisma dei suoi grandi appuntamenti con il destino: «Ciò che rende l’America eccezionale sono i legami che ci tengono insieme, nella nazione più eterogenea della terra, è l’idea che qui tutti possono farcela senza discriminazioni di razza o di ricchezza». Obama dimentica le ferite di una campagna spietata, assapora la vittoria “impossibile”: tutti i precedenti storici dicevano che mai un presidente americano viene rieletto con tassi di disoccupazione all’8%, con 23 milioni fra disoccupati e sottoccupati, con un declino del ceto medio. Proprio queste durezze hanno aperto gli occhi agli elettori che lo hanno riconfermato: riconoscendo la gravità della crisi che aveva ereditato, dandogli atto di una ripresa lenta ma reale, di una riforma sanitaria senza precedenti. Obama si conferma lottatore indomabile, il suo agonismo caratteriale è stato esaltato dalla cattiveria di una destra il cui leader al Senato si era dato un obiettivo solo: “Cacciare il presidente”. Obiettivo fallito, e le truppe in rotta di una destra reazionaria sono frastornate dalla rinascita del trascinatore carismatico. Che nell’ora della gloria tratta Romney con rispetto, eleganza, perfino stima.
Obama ripaga il suo popolo con un discorso di sinistra, ritrova parole importanti sulla democrazia e sull’eguaglianza. Nella notte del blues e nel calore di Chicago abbraccia i suoi neri che non lo hanno mai mollato, sono tornati in massa alle urne per “vendicare” le offese contro un presidente che la destra aveva trattato da «alieno, impostore, antiamericano, islamico». Abbraccia i giovani, le ragazze, gli ispanici che lo hanno plebiscitato al 71%: le constituency del 2008 magicamente riemerse a occupare la scena della grande democrazia americana, proprio mentre venivano date per disilluse e disperse. «Continueremo a fare questa strada insieme, perché il ruolo del cittadino nella democrazia non si esaurisce nel voto». Ha un’idea nobile della politica, la declina non solo con le affermazioni di principio ma con gli esempi concreti: il suo American Dream è il giovane che si è pagato il college lavorando duramente e vuole che tutti i ragazzi abbiano le stesse opportunità; è la volontaria che fa campagna elettorale porta a porta perché suo fratello è stato finalmente assunto in fabbrica con la ripresa. «Vogliamo per i nostri figli un’America che non sia fiaccata dalle diseguaglianze. Generosa, tollerante, aperta al sogno degli immigrati».
E poi: «Michelle non ti ho mai amato così tanto », l’omaggio doveroso alla moglie immensamente popolare, avviene mentre sul palco lei sale con due «giovani donne», Sasha e Malia così cresciute da essere quasi irriconoscibili nelle foto di quell’altra sera magica di Chicago quattro anni fa. Ecco, tre donne. La famiglia Obama è una forza: questa elezione l’hanno decisa le donne, con una netta scelta di sinistra, le americane hanno trovato un nuovo modello di stile e di valori in Michelle, Sasha e Malia, un nucleo familiare che rappresenta idealmente l’America del terzo millennio, agli antipodi dall’oligarchia Wasp coi capelli biondi e occhi azzurri del clan milionario dei Romney. «L’America si è innamorata di te»: in quel tributo di Barack c’è la consacrazione della “nuova maggioranza” che il presidente ha costruito. La sua vittoria è unica nella storia, anche per questo. Alla “moral majority” della destra neocon si contrappone un mosaico di minoranze: giovani, neri, ispanici, donne celibi, gay, operai metalmeccanici dei bastioni industriali del Midwest. Il leader che riesce a unire categorie così disparate ora può aspirare ad essere un nuovo Franklin Roosevelt, presidente che sconfisse la Grande Depressione ma anche architetto di un “riallineamento politico”, di una nuova coalizione progressista cementata dal Welfare, dal patto di solidarietà sociale.
Obama può dedicarsi al suo lascito nella storia, libero dagli assilli della rielezione. Ma il crollo della Borsa, e la minaccia di Fitch e Moody’s (“L’America deve stabilizzare il suo debito”) di un possibile downgrading degli Stati Uniti, rendono ancora più dense le parole brevi con cui ha delineato il suo programma. «Stasera voi avete votato per l’azione. Io parlerò con ambedue i partiti, perché c’è una sfida urgente che possiamo risolvere solo insieme: il deficit di bilancio e la riforma fiscale». Proprio una mancata stabilizzazione del debito farebbe scattare il declassamento dei rating. La pesante caduta di Wall Street è l’improvviso risveglio dei mercati di fronte a questa realtà. Entro fine anno l’America fronteggia un “precipizio fiscale”: una mannaia automatica di tagli di spese e inasprimenti di tasse, che può sprofondarla in una nuova recessione. Quel precipizio fu la conseguenza dell’ostruzionismo della destra, il sabotaggio sistematico di ogni riforma delle imposte con cui il presidente voleva eliminare i privilegi dell’“1% ”, le assurde elusioni dei banchieri. Obama dopo il tripudio di una vittoria esaltante deve calarsi subito nella realtà di Washington: un sistema politico bloccato. Gli americani hanno rieletto un presidente di sinistra e una Camera di destra. Non hanno dato via libera incondizionato a una dilatazione del peso dello Stato nell’economia. Il presidente riparte da una posizione di forza, ma deve sfondare con una strategia che unisca l’equità e il rigore, l’attacco ai privilegi delle oligarchie finanziarie e uno snellimento della macchina statale (che proprio in questi giorni di fronte all’uragano Sandy non ha dato prove di una grande efficienza). Ha davanti a sé il cantiere immenso di una sinistra moderna. Come si è capito, Barack Obama non si fa intimidire dall’enormità dell’impresa.
La Repubblica 08.11.12
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“Svolta a sorpresa, sì a marijuana e nozze gay”, di ARTURO ZAMPAGLIONE
Seattle come Amsterdam? Sul lungomare della città di Bill Gates e del grunge potrebbero spuntare tra poco tante coffee-house come quelle che in Olanda vendono legalmente spinelli già preparati e hashish al grammo. Lo stesso rischia di accadere in altri centri piccoli e grandi dello stato di Washington e del Colorado. Martedì, infatti, gli elettori dei due stati del West hanno approvato dei referendum che legalizzano l’uso “ricreativo” della cannabis, consentendo a ogni cittadino di più di 21 anni di fumarsi una canna e di possedere non più di un’oncia della sostanza, cioè 28 grammi.
«Speriamo che il risultato convinca il governo federale che il proibizionismo non funziona », ha dichiarato Tonia Winchester, una dirigente della campagna referendaria a Seattle. «Invece dell’alcool, i cittadini saranno liberi, se lo desiderano, di fumarsi uno spinello», gli ha fatto eco Mason Tvert, responsabile della campagna nel Colorado. E sempre l’altro ieri, mentre l’Oregon bocciava la possibilità di coltivare la marijuana a casa, il Massachusetts ha introdotto l’uso terapeutico della marijuana, diventando così il diciottesimo stato americano a imboccare la strada della liberalizzazione. Il voto pro-spinello è stata una vera sorpresa del martedì elettorale, così come l’approvazione dei matrimoni gay nel Maryland, nel Maine e nello stato di Washington. Intanto la California ha detto sì a un ritocco delle aliquote fiscali sui ceti più abbienti per finanziare le spese della scuola e ha bocciato la legge anti-Ogm, mentre il Maryland ha autorizzato le borse di studio nei college pubblici a favore dei figli di immigrati clandestini.
Insomma, presi nel complesso, i risultati dei 170 referendum svoltisi in 38 stati hanno fatto emergere una società più liberal e tollerante di quel che farebbero pensare quei milioni di voti confluiti su Mitt Romney, o l’affermazione di candidati del Tea party, o la vittoria dei repubblicani alla Camera. E se sul piano strettamente politico i rapporti di forza non sono molto cambiati — visto che Barack Obama resta alla Casa Bianca, i democratici mantengono la maggioranza al Senato, mentre la destra terrà quella alla Camera — le novità sulla droga, i gay e gli immigranti sono la cartina di tornasole di un rapido cambiamento sul piano sociale e culturale.
Al Senato i repubblicani sono rimasti scottati dalla perdita di tre seggi importanti. Nel Massachusetts Elizabeth Warren, paladina dei consumatori e collaboratrice di Obama, ha ripreso il seggio che era stato a lungo di Ted Kennedy ed era stato poi “soffiato” da Scott Brown. Nell’Indiana e nel Missouri gli ultraconservatori Richard Mourdock e Claire McCaskill, che si erano detti contrari all’aborto anche in caso di stupro sollevando un vespaio, sono stati puniti dalle elettrici che al loro posto hanno scelto due democratici.
La liberalizzazione del consumo di marijuana metterà il Colorado e lo stato di Washington in rotta di collisione con il governo federale, che vieta la cannabis considerandola un narcotico. Finora la Casa Bianca di Obama, pur contraria alla diffusione della cannabis, non aveva ostacolato le vendite per uso terapeutico in California e altri stati. Ma l’introduzione del concetto di «uso ricreativo» costringerà il governo a prendere una posizione più precisa.
La Repubblica 08.11.12
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“Prego che il presidente abbia successo” l’amara resa di Romney il miliardario, di ANGELO AQUARO
E INVECE guarda com’è cinico il destino che è pure baro da fregarsi i soldi della beneficenza. Al miliardario mormone non è bastato comprarsi con generosissime donazioni il seggio di Belmont, la cittadina-giardino alle porte di Boston dove vive nella più modesta delle sue sei dimore, appena 895mila dollari, adibita a residenza ufficiale s’immagina per qualche gabola fiscale. Perfino qui, a casa, il benefattore di diamante fa una figura di ben altra materia: sconfitto da Barack Obama 65 a 34 per cento delle preferenze.
«Nessuna campagna è perfetta, in politica nulla è sicuro »: soltanto a voto già iniziato, a poche ore dallo scrutinio, il candidato aveva confidato gli ultimi, ma in realtà primissimi dubbi sui risultati della sfida, intrattenendosi come non aveva mai fatto con i giornalisti al suo seguito sul «Day One», il jet privato che scimmiottava già nel nome l’Air Force One ma rimandava soprattutto al «Giorno Uno» da cui sarebbe dovuta ripartire la ricostruzione dell’America. Sarà per un’altra volta. E, soprattutto, non toccherà mai più a lui. A 65 anni Mitt Romney ha perso tutto: ha perso le elezioni nel borgo dove vive, ha perso le elezioni nello Stato dov’era governatore, il Massachusetts, ha perso le elezioni nello stato dov’è nato, il Michigan — e ha perso, alla sua età, anche la prospettiva di riprovarci. E come si vedeva che gli bruciava. Dentro, naturalmente, e sempre in quel modo composto e perfettino che faceva impazzire di rabbia Tagg, il maggiore dei cinque figli che da bambino odiava del papà «perfino quella pettinatura mai in disordine» — e mica per niente sarebbe diventato negli ultimi due mesi il consigliere più fidato, quello che ha provato a togliergli la patina di manager freddo e impossibile. «Avrei tanto voluto essere capace di nutrire le vostre speranze di guidare il paese in un’altra direzione» ha detto lo sconfitto, quasi sospirando, davanti agli invitati stravip della festa abortita nella ballroom del Convention Center, i super ricchi che avevano praticamente creato un ingorgo al Logan di Boston con i loro aeroplanini privati. Chiuso nel fortino lussuoso del Westin, lì accanto, per la verità lo sfidante aveva aspettato oltre un’ora e mezza prima di fare la tradizionale “concessione”, mentre i suoi azzecagarbugli già puntavano all’aeroporto, pronti a scavare nelle più sperdute contee dell’Ohio, della Florida o dell’Iowa, nella melma dei brogli, nel tentativo disperato di non arrendersi. Ma ha perso anche questo, Mitt: i numeri non lasciavano più dubbi. Solo a quel punto s’è piegato all’evidenza e al galateo istituzionale, affidando a quel discorso che non aveva neppure voluto preparare («Ho scritto solo quello della vittoria, mai pensato all’ipotesi di perdere») il suo ultimo messaggio alla nazione, quasi rispolverando il suo vecchio mestiere di vescovo mormone: «Il paese ha scelto un altro leader, per l’America è un momento di grande difficoltà: è per questo che prego che il presidente abbia successo nella guida del paese».
Sì, ora ha perso davvero tutto Mitt Romney. Salvo ovviamente il patrimonio da 250
milioni di dollari di cui, previdentemente, si era rifiutato di dimostrare la provenienza: primo candidato nella storia a non presentare la dichiarazione dei redditi degli ultimi 8 anni, secondo la convenzione non scritta introdotta quarant’anni fa da un uomo che si batteva per la trasparenza dei politici — suo padre George. «Papà»: l’unica parola che Mitt scriveva sul foglietto che ha sempre messo davanti a sé nei dibattiti tv, «voglio ricordarmi di tutti i sacrifici che ha fatto, voglio che da lassù sia sempre fiero di me». Fiero? Era tutta la vita che Mitt cercava di emulare George, storico re dell’auto di Detroit e governatore del Michigan: e ora finalmente c’è riuscito. Come lui governatore, come lui per due volte in corsa per la Casa Bianca: e per due volte sconfitto — come lui. Tranquilli: nell’America di questa “complicata” democrazia — la definizione è proprio di Barack Obama — i Romney sembrano più usciti dall’album delle “belle famiglie” di Jacques Prévert che dalla mitologia Usa dei self made men. Per questo, com’è già stato per i Kennedy, com’è ancora per i Bush, anche per i Romney si guarda già all’ultima generazione. Però, diamine, il testimone-scettro non doveva mica tramandarsi così presto. Lo tradisce proprio l’ultima, sospirata dichiarazione di Mitt, guardando Ann, «l’amore della mia vita»: «Sarebbe stata una meravigliosa first lady..». Che strazio, che pena, che sofferenza: non si uccidono così anche i miliardari?
La Repubblica 08.11.12