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“Il Pd e la prova per i giovani”, di Alfredo Reichlin

La politica cammina in fretta. Il problema che già si pone è cominciare a pensare ciò che sarà il Pd. È vero che siamo ormai i garanti e la forza portante della democrazia italiana e che, come dice Bersani, a questo punto «non ci ammazza più nessuno». Ma la vicenda delle primarie ha reso chiaro che anche una intera fase della vita del Pd si è conclusa.
Di fatto, questo nuovo rapporto con la gente ha già avviato un ricambio di gruppi dirigenti. Non per caso alcune componenti, tra cui quella cattolica ma anche quella che si rifà a una cultura più socialista, hanno avviato nuove riflessioni su se stesse e sul proprio ruolo. Comunque sia, le cose camminano in fretta. È chiaro che il Pd sarà presto sottoposto a una prova di governo (o di opposizione) molto impegnativa. Non nascondiamocelo. Si tratterà di ripensare il modi di essere di uno Stato vicino allo sfascio e di una società disgregata come quella italiana in rapporto alla necessità di adeguarsi a una realtà europea sempre più supernazionale, la quale si sta già formando: con le sue leggi e anche con le sue sfide e le sue occasioni. Per fare un solo esempio: come possiamo evitare di ripensare in questo quadro il futuro del Mezzogiorno, non come appendice assistita ed esposta a tutte le illegalità, ma come parte attiva della nuova Europa e della sua posizione nel Mediterraneo?
Ecco in che cosa consiste la necessità di un governo altamente politico e non di un «Monti bis». Ciò che molti anche tra noi non hanno capito è che il nostro problema non è quello di uscire dalla crisi come se si trattasse di una emergenza che prima o poi finirà e tutto tornerà come prima. Governare significa oggi pensare un’altra Italia. Questo è il punto. Bisogna pensare una Italia nuova che sia capace di stare dentro quello che è un profondo processo strutturale in corso in tutto il mondo, come ci dicono le elezioni americane e il congresso del partito comunista cinese. Lo strapotere della finanza, e quindi dell’economia del debito e delle rendite a spese del lavoro umano e della sovranità della democrazia politica, ha iniziato il suo declino. Ma non si tornerà al passato, non risorgeranno le vecchie fabbriche, né tornerà il compromesso socialdemocratico e pro-welfare (partiti di massa compresi) che fu alla base della vecchia civiltà industriale. Lo sviluppo non ripartirà dai vecchi consumi.
Proprio qui sta la necessità anche per il Pd di una svolta nel modo stesso di fare politica. È il rapporto tra i partiti e la società che è destinato a cambiare. È inevitabile. Io non ho titoli per dare consigli ma vorrei dire ai tanti giovani, molto validi e interessanti che si stanno facendo largo nelle file del Pd, che è su questo terreno che le nuove leadership saranno messe alla prova. È sul nesso politica, società, nuovi bisogni e nuove relazioni umane che spetterà loro costruire una nuova stagione del Pd. La politica che vincerà sarà quella che andrà alla scoperta delle risorse più profonde dell’Italia, un Paese dove esistono le cose più belle del mondo e dove la politica può progettare essa stessa nuove possibilità di occupazione e lavoro al di fuori del vecchio circuito dell’ accumulazione, delineando nuove economie, disegnando nuove possibili utilità sociali e ambientali, valorizzando l’umana operosità che il meccanismo attuale tende a usare in forme precarie. Ma questa nuova creatività della politica si può affermare solo creando un nuovo rapporto fra le classi, ridando alle masse operaie e popolari la forza di contare. Ho letto in questi giorni uno scritto di Walter Tocci che mi permetto di citare perché è proprio quello che mi preme di dire ai nuovi quadri dirigenti. Tutti parlano dei grandi difetti del Pd ma esso è oggi l’unica grande forza popolare che può garantire una svolta riformatrice nel Paese. La partita sulle prospettive democratiche del Paese è tuttora aperta perché esiste il Pd, altrimenti sarebbe buio pesto. Ma, senza assumere anche un grande progetto culturale non riusciremo temo a dare soluzione ai problemi aperti, quali l’incontro tra la cultura socialista e cattolica che sempre più dovrà avvenire nella profondità dei legami sociali e del riconoscimento dei valori, non nel vecchio teatrino politico.
Penso alla centralità del lavoro che deve essere alimentata da analisi, proposte e conquiste all’altezza della grande trasformazione in atto nei processi produttivi. Potrei continuare ma è la radicalità e la moderazione del termine democratico che vanno riscoperte per riconquistare la fiducia verso la politica e per attrarre le parti più consapevoli dell’elettorato moderato.
L’Unità 15.11.12