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“Diluvia: chi fa soldi e chi perde tutto”, di Mario Pirani

Nella tragedia dell’alluvione in Sardegna più che il caso cominciano ad emergere le colpe, colpe delle amministrazioni che hanno permesso ciò che era vietato, degli speculatori che hanno costruito lungo le sponde dei fiumi, di chi si è impadronito dei terreni agricoli per farne aree illecite di costruzioni e così via. Interrogo, per avere un quadro complessivo del disastro sardo, un esperto della Consulta nazionale di protezione civile della Cgil, Marco Leonardi È reticente, teme di trasformarsi in portavoce della stampa ma lo rassicuro: vorrei solo delle spiegazioni razionali e non sfoghi di indignazione emotivi, anche se ce n’è ben motivo. Cito solo la frase iniziale del suo riassunto: «L’Italia è a rischio di default ambientale». Chi è aduso al linguaggio della crisi economica capisce che non si tratta di una metafora. Poi mi sottopone alcuni dati su scala nazionale o locale.
Oltre l’80% dei comuni presenta almeno un’area a rischio elevato o molto elevato di frana o di alluvione; il 10 per cento circa del territorio nazionale presenta un’elevata criticità idrogeologica.
Si stima che i danni da eventi connessi al rischio idrogeologico dal 1944 al 2012 possano ammontare ad oltre 60 miliardi di euro. A fronte di una situazione di questo genere, senza entrare nel merito della discussione sul cambiamento climatico e sulle sue cause, si deve intervenire sia in termini di prevenzione strutturale, attraverso una corretta gestione del territorio, sia in termini di capacità di risposta delle comunità alle calamità naturali.
L’Italia si è dotata di un servizio di protezione civile con la Legge febbraio 1992, che ha portato alla creazione di un sistema complesso, cui concorrono più Enti e Amministrazioni, articolato in attività di previsione e prevenzione dei rischi, soccorso e superamento dell’emergenza. I Comuni debbono provvedere a redigere i piani di emergenza ma se questi non si incardinano nell’amministrazione ordinaria e se non coinvolgono tutti i cittadini nel processo di quella che gli anglosassoni
chiamano “preparedness”, rimangono meri atti formali. Inoltre nella maggior parte dei casi non dispongono di adeguate risorse né strutture tecniche di supporto. Con la direttiva emanata dal presidente del Consiglio dei ministri il 27 febbraio 2004, è stato disegnato il sistema di allerta e monitoraggio per il rischio idrogeologico ed idraulico ai fini di protezione civile, creando la rete dei centri funzionali. Non tutte le Regioni, peraltro, se ne sono dotate e non sono quindi in grado di assicurare in autonomia l’allerta e il monitoraggio su questi rischi. Il costoso sistema di allarme e le informazioni sugli eventi previsti gravano allora in massima parte sul sindaco. Inoltre, malgrado le leggi e le enunciazioni di principio, la protezione civile italiana viaggia su un doppio binario: un binario — quello dei centri funzionali — dove ci si può muovere ad alta velocità, dotato di poteri e risorse, anche se spesso male utilizzati; così anche il sistema di monitoraggio sul rischio idraulico e idrogeologico ha beneficiato di numerose ordinanze in deroga e di generosi finanziamenti.
L’altro binario, sul quale ci si muove in condizioni ordinarie, con molti vincoli e con poche risorse, è quello su cui dovrebbero correre molti interventi di prevenzione. Si è arrivati così al paradosso che i Comuni virtuosi, intenzionati a spendere per la prevenzione e per la messa in sicurezza del proprio territorio, spesso non possono farlo, a causa del patto di stabilità. Invece, dopo che il disastro è arrivato, viene dichiarato lo stato di emergenza e alle amministrazioni colpite è concesso derogare a quello stesso patto di stabilità, per fare fronte a danni che, almeno in parte, si potevano evitare. Tutto questo sembra supportare le tesi di chi ritiene che esista in Italia una vera industria dell’emergenza, a vantaggio di uno o più comitati d’affari, ovviamente poco interessati alle politiche di prevenzione. L’Italia del malaffare fiorisce anche sotto la pioggia?

La Repubblica 25.11.13