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"Non basterà l'euro debole a far ripartire l'Italia", di Fabrizio Galimberti

Da marzo a oggi l’euro ha guadagnato un paio di punti di competitività, secondo i dati Bri dei cambi effettivi reali. E uno degli scopi inconfessati delle recenti misure della Bce (di inizio giugno) era quello di accompagnare e proseguire in quel guadagno, affiochendo quella che veniva comunemente percepita come una scomoda forza della moneta unica.

L’inciampo delle esportazioni extra-Ue, appena comunicato dall’Istat, sembra confermare quanto sia urgente un’ulteriore discesa dell’euro. Dall’inizio del 2012 a oggi, in effetti, l’euro, malgrado la discesa degli ultimi mesi, rimane apprezzato (e quindi perde competitività) di 5 punti (e di 6 per il cambio effettivo nominale). Ma è veramente fuori linea il cambio del l’euro?

Quando si ragiona di movimenti in alto o in basso di quell’indice-principe di competitività-prezzo che è il cambio effettivo reale, molto dipende dalle date che si scelgono: aumenti o diminuzioni rispetto a quando? Se, per esempio, andiamo a vedere come è cambiato quell’indice dagli albori della Grande recessione a oggi, vediamo che dall’agosto 2007 al giugno 2014 l’euro si è deprezzato (guadagno di competitività) del 5% circa (l’Italia, il cui indice di cambio effettivo reale è diverso da quello dell’euro per il diverso tasso di inflazione, ha guadagnato 3 punti). Allargando ancora lo sguardo, il livello più recente del cambio reale del l’euro si situa esattamente sulla media 1999-2014, cioè sul quindicennio di vita della moneta unica (lo stesso vale per il cambio reale dell’euro/Italia).
Il linguaggio crudo delle cifre non porta quindi molta acqua al mulino di quanti vedono nel cambio dell’euro un ostacolo alla competitività. E c’è da fare un’altra importante considerazione. Gli alti e bassi delle valute sono meno importanti di un tempo nel determinare la competitività dei prodotti di una nazione.

Le catene di offerta che si dipanano ormai lungo i continenti (un prodotto finito del Paese X ha dentro lavorazioni e semilavorati fatte e ricevuti dai Paesi W, Y, Z…) fanno ballare i vantaggi e gli svantaggi di deprezzamenti e apprezzamenti. Il vantaggio di un euro più debole viene pesantemente annacquato dallo svantaggio di maggiori costi per componenti e lavorazioni che vengono dall’estero. In ogni caso, gli ultimi dati sull’export italiano sono meno negativi di quanto sembri. Guardando oltre la volatilità dei dati mensili, nel secondo trimestre l’export extra-Ue destagionalizzato è aumentato ancora, sia pur di poco, rispetto al primo trimestre. Certamente, le performance sono meno buone rispetto a prima: gli esportatori italiani, che sono da sempre lesti nello spostare la produzione verso i mercati che tirano maggiormente, sono stati presi in contropiede dal (peraltro fisiologico) rallentamento dei Paesi emergenti. Un rallentamento che però rimarrà tale: si tratta di uno scalare di marcia, non di un arresto.

Perché, allora, il cambio dell’euro viene così spesso messo sotto accusa? Perché alcuni (e non sono pochi) auspicano addirittura un’uscita dell’Italia dall’unione monetaria? Si tratta di un tipico caso di deviazione delle frustrazioni. L’esasperazione (giustificata) di un’Italia stagnante viene dirottata verso facili bersagli. Il complesso sedimento delle ragioni – alcune strutturali, altre legate a un’austerità coi paraocchi – per cui l’Italia non cresce non è facile da scavare. È più semplice trovare un capro espiatorio formato, possibilmente, da una sola parola; torna alla mente una battuta: «Se una soluzione è così semplice da poter essere scritta su una T-shirt, è certamente sbagliata».

L’economia italiana non ha bisogno di un euro più debole, o, per meglio dire, un euro più debole non risolve i problemi della nostra economia. L’economia italiana ha bisogno di maggior domanda, ma questa affermazione, perché non sia lapalissiana, si dipana in due direzioni di marcia: riforme e flessibilità. Abbiamo bisogno di flessibilità negli obiettivi di bilancio, ma si tratta di una flessibilità che dobbiamo meritare con le riforme. Anche le riforme cosiddette istituzionali hanno molto più potere di stimolo all’economia di quanto si creda. La crescita è un fenomeno complesso, che ha alla base la voglia di crescere, la convinzione che un futuro migliore è possibile e a portata di mano. Portare la durata media di un processo civile dai 2900 giorni italiani ai 900 francesi o ai 750 spagnoli o ai 350 del Giappone stimolerebbe la nostra economia molto più di un deprezzamento del 20% dell’euro.

da Il Sole 24 Ore