attualità, politica italiana

"L'ora della libertà", di Ezio Mauro

L´irruzione della legalità ha dunque fatto saltare per aria il Pdl, mettendo fine alla costruzione politica e mitologica del più grande partito italiano nella forma che avevamo fin qui conosciuto, come l´incontro tra due storie, due organizzazioni e due leader in un unico orizzonte che riassumeva in sé tutta la destra italiana, il suo passato, il suo futuro e l´eterno presente berlusconiano.
Tutto questo è andato in pezzi, perché la legalità è come una bomba nel mondo chiuso del Cavaliere, dove vigono piuttosto la protezione della setta, l´omertà del clan, il vincolo di servitù reciproca di chi conosce le colpe individuali e il destino comune di ricattabilità perpetua. Trasformando la legalità in politica, Fini ha scelto il terreno più proficuo per mettere psicologicamente e moralmente in minoranza la potenza del premier, dimostrando la solitudine dei numeri e la debolezza dei muscoli. In più, si è posizionato su un terreno elettoralmente e mediaticamente redditizio, dove può nascere una cultura di destra-centro che provi per la prima volta a parlare insieme di ordine e di regole, di moralità e di Costituzione.
l rispetto delle istituzioni, la fedeltà alla Carta sono infatti l´altro grande fattore di rottura. Dalla semplice, ma insistita regolarità costituzionale con cui il presidente della Camera ha interpretato il suo ruolo e con cui ha segnato ogni suo intervento è nata una cultura politica che è rapidamente e inevitabilmente diventata antagonista rispetto al populismo berlusconiano, alla continua forzatura istituzionale, al primato della costituzione materiale basata su una concezione sovraordinata della leadership «unta» dal consenso popolare, e dunque suprema, libera da ogni separazione e bilanciamento dei poteri.
Sono queste due culture – una tutta prassi, imperio e comando, l´altra alla ricerca di uno spazio costituzionale, europeo e occidentale anche a destra – che non potevano più convivere. Disegnato il perimetro di una nuova destra-centro, Fini si è fermato ad aspettare l´inevitabile, che doveva accadere ed è accaduto. Preannunciato dal pestaggio mediatico sui giornali di famiglia e di altre famiglie asservite, un pestaggio con cui il Cavaliere annuncia sempre il suo arrivo in zona di guerra, ieri si è giunti di fatto all´espulsione, parola che non viene pronunciata nel documento del Pdl solo per un finto pudore di vocabolario, e perché ricorda troppo da vicino la pratica autoritaria del «centralismo democratico» comunista, che anche in Italia non tollerava il dissenso e cacciava i dissidenti.
È un pudore inutile, per due ragioni. La prima è che gli intellettuali e i giornali cosiddetti liberali in Italia sono strabici, e in questi anni sono riusciti a tollerare ogni sorta di sopruso ad personam: dunque ingoieranno questa repressione autoritaria del dissenso senza nemmeno ricordare quel che dicevano quando la minoranza del Manifesto fu cacciata dal Pci. La seconda ragione, è che il documento politico parla comunque chiaro, anzi chiarissimo, per oggi e per domani, fino alla parole con cui il premier rivuole indietro la presidenza della Camera, come se le istituzioni fossero cosa sua. Nessuna distinzione ideale, culturale, politica, organizzativa e soprattutto morale – dice quel testo – è possibile nel cerchio magico del berlusconismo, che giudica automaticamente «incompatibile» chi non la pensa come il leader, senza nemmeno rendersi conto dell´enormità illiberale di questa scelta. L´unica cosa che conta è l´invulnerabilità politica del Capo, anzi la sua intangibilità, nel culto sacrale dei sottoposti. Nella sua debolezza patente, spacciata per prova di forza, il Cavaliere pensa che una volta cacciato Fini il cerchio del potere tornerà a chiudersi su di lui virtuosamente come accade da quindici anni, cingendogli il capo davanti alla nazione prona e riconoscente.
Purtroppo per Berlusconi, le cose non stanno così. Questi ultimi tre mesi dimostrano che i numeri dei dissidenti sono sufficienti già oggi per farlo ballare a piacimento alla Camera, e domani al Senato. Fini ha già detto che non vuole ribaltare la maggioranza, dunque tecnicamente terrà in mano la sorte del governo ogni giorno, acquistando un rilievo evidente come attore politico e non solo come soggetto istituzionale. Ogni volta che vorrà, manderà a bagno il Cavaliere, nelle acque per lui meno salutari: la legalità, la moralità, la libertà d´informazione, l´economia, il federalismo e inevitabilmente il sistema televisivo, con il controllo totale della Rai da parte del padrone di Mediaset.
Tutto ciò, naturalmente, a condizione che il presidente della Camera sappia far politica da solo, in mare aperto, reggendo alle bastonature quotidiane che la fabbrica familiare del fango berlusconiana (sempre aperta) infliggerà a comando: con il risultato inevitabile di portare al pettine politico e parlamentare quanto prima la vergogna e la dismisura del conflitto di interessi, con buona pace dei liberali che da anni fingono di dimenticarlo. Ma Fini ha un obbligo in più: non può fermarsi, come tocca alle formazioni corsare, deve andare avanti, tessendo una politica e una cultura che se restano fedeli alla Costituzione possono essere utili alla repubblica. Vedremo se saprà farlo.
Già oggi, nel giorno dell´espulsione, due risultati politici sono chiari: il primo è il destino della legge bavaglio, sintesi delle pulsioni illiberali del premier – contro la legalità, contro l´informazione, contro un´opinione pubblica consapevole – e ormai apertamente disconosciuta dal suo autore: «Avevamo fatto un bel cavallo – ha ammesso il Cavaliere – ci ritroviamo un ippopotamo». Il fatto è che quel cavallo serviva al leader e ai suoi uomini di vertice per scappare alla vergogna degli scandali che li inseguono, a suon di intercettazioni legali, ed è stato fermato in piena corsa dalla protesta dei cittadini, dei movimenti, dell´opposizione parlamentare, di questo giornale, ma anche dalla tenuta dell´asse istituzionale tra Fini e Napolitano. Il secondo risultato politico è una conseguenza: la rete larga di opinione, di istituzioni e di politica che ha detto no al sopruso berlusconiano rende di fatto impossibile il ricorso da parte del Cavaliere all´arma fine di mondo, le elezioni anticipate.
Indebolito nel presente, bloccato nel futuro, il premier vede andare in frantumi anche l´epopea eroica con cui racconta il suo passato. Ciò che viene meno dopo la rottura con Fini è infatti lo stesso mito fondativo, l´epica primordiale dell´uomo che con l´alito creatore dà vita alla destra, indicandole nello stesso tempo il frutto proibito del dissenso, mentre ammonisce terribile e paterno: «Non avrai altro dio all´infuori di me». Da oggi, il creatore del Pdl torna ad essere una creatura politica come le altre, mentre anche a destra comincia finalmente la stagione inedita del politeismo, che porterà per forza al rifiuto del vitello d´oro: è solo questione di tempo.
L´unica soddisfazione, misera, è per l´istinto padronale di Berlusconi, che non misura la partita in termini di politica, ma di comando. Il Capo è appunto un uomo solo al comando, circondato dai Verdini, i Dell´Utri e i Brancher, che gli devono tutto e a cui lui deve di più, come dimostra l´intreccio esoso delle servitù incrociate, all´ombra degli scandali che circondano il fortino in cui è rinchiuso il governo, senza politica. L´unica politica, l´unico collante, l´unica ragione per rimanere in piedi è ormai il federalismo, un´ideologia altrui, che Berlusconi accetta per placare Bossi: inquieto ogni volta che deve spiegare alla sua gente gli affari, i favori, le manovre segrete della P3.
È un conto alla rovescia, oggi che nel popolo berlusconiano è cominciata davvero l´ora della libertà.

La Repubblica 30.07.10

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“Mi sono tolto un peso come con Veronica”, di Francesco Bei

«Mi sono tolto un peso, mi sento liberato. Come quando ho divorziato». Al termine di quello che sarà ricordato come il giorno più lungo della legislatura, Silvio Berlusconi tira un sospiro di sollievo e già pensa alla prossima campagna elettorale.«Vediamo quanti parlamentari gli andranno dietro. Se ci renderanno la vita difficile, torneremo al giudizio degli italiani». Consiglio di guerra a palazzo Grazioli. Dalla mattina entrano ed escono nel salotto del Cavaliere tutti i più stretti collaboratori, da Letta a Ghedini, da Bonaiuti a Bondi. Berlusconi non ha più remore, non ascolta più chi gli consiglia di non precipitare la situazione: «Basta, con questa rissa continua il Pdl ha già perso il 5 per cento nei sondaggi. Non sto fermo a farmi massacrare». Dopo pranzo nuova riunione con i coordinatori e i capigruppo per stendere la sentenza di condanna al presidente della Camera. Ma la decisione di rompere con Fini in verità è già stata presa la sera prima, a nulla è valsa la corsa notturna (in Vespa e sandali tedeschi) di Giuliano Ferrara al Plebiscito per scongiurare l´irreparabile.
Così, dopo averci dormito sopra, indispettito dalla lettura dei giornali, Berlusconi è andato a sfidare il nemico in campo aperto. «Andiamo alla Camera», ha ordinato a sorpresa alla scorta prima di pranzo. Mentre Fini presiedeva, il Cavaliere ha fatto ingresso nell´Aula durante le votazioni sulla manovra. Né uno sguardo né un saluto con Fini. Berlusconi gli ha voltato le spalle, ignorandolo platealmente. Quindi, seduto al banco del governo, a meno di due metri dalla poltrona di Fini, si è messo a discutere con Bobo Maroni le prossime mosse: «Voglio nominare sei nuovi sottosegretari. Poi voglio promuovere tutti gli attuali sottosegretari a viceministri… è un titolo più onorevole».
Il premier ragiona come se dovesse durare fino alla fine della legislatura. Ma non esclude più nulla. «Mettiamoci a lavorare alla campagna elettorale», ha detto a tutti quelli che negli ultimi giorni sono andati a trovarlo. Il ragionamento del premier non prevede infatti subordinate. Non esistono governi di transizione. Il piano, nel caso qualcuno volesse provarci, è quello di trasformare palazzo Madama nel “ridotto della Valtellina”, il luogo dove organizzare la difesa finale. «Al Senato avremo comunque la maggioranza – ha spiegato Berlusconi – e, se pure Fini riuscisse a provocare la crisi, diremo a Napolitano che non sosterremo nessun altra soluzione se non il ritorno alle urne. Io sono un imprenditore, al rischio sono abituato».
Visto che ormai ha deciso di affrontare a viso aperto i suoi nemici, Berlusconi è intenzionato ad andare martedì prossimo in Senato per pronunciare un duro j´accuse nei confronti delle procure, preannunciando l´istituzione di una commissione d´inchiesta parlamentare sull´uso «politico» della giustizia. Commissione che avrà gli stessi poteri dell´autorità giudiziaria, potrà chiedere ai pm le carte delle inchieste in corso sul Pdl e interrogarli in audizione. «Faremo il processo a chi ci vuole processare», preannuncia un falco berlusconiano. L´escalation contro i giudici è dovuta anche all´incubo che inizia a farsi strada a palazzo Grazioli. Tra ottobre e novembre è attesa infatti la sentenza della Corte costituzionale sul legittimo impedimento e i consiglieri giuridici del premier si aspettano una bocciatura. A quel punto, senza il lodo Alfano costituzionale, Berlusconi sarà privo di qualsiasi scudo. E a Milano ricomincerà a ticchettare il conto alla rovescia per la sentenza nel processo Mills. L´imperativo dunque è quello di passare subito al contrattacco.
Deciso a sistemare tutti i conti aperti, il premier sarebbe prossimo anche a un «chiarimento finale» con l´altro uomo forte del Pdl: Giulio Tremonti. Il ministro che, in queste settimane, di fatto ha commissariato palazzo Chigi, gestendo in proprio la difficile partita della manovra. Un confronto tra i due ci sarà a settembre, perché i nemici vanno affrontati «uno alla volta».
Berlusconi dunque pensa alle elezioni. Tanto che ha iniziato a prendere le misure a quello che considera già il suo prossimo sfidante: Nichi Vendola. Su di lui il premier ha chiesto sondaggi perché non ritiene la sfida tanto semplice. «C´è la convinzione – si leggeva due giorni fa sul “Mattinale” berlusconiano – che in Italia una leadership di sinistra radicale non avrebbe mai spazio. È la stessa convinzione che ha portato Bassolino prima e Vendola poi ad espugnare regioni tradizionalmente di centrodestra. Berlusconi è l´unico che può affrontare un avversario venuto dal nulla che appare come l´Obama italiano».

La Repubblica 30.07.10