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"E' possibile un sistema di valutazione friendly?", di Giancarlo Cerini

Scorrendo le bordate polemiche sui blog e sui siti degli insegnanti, capita spesso di leggere “indignate” prese di posizione contro l’attuale sistema di valutazione, contro l’utilizzo dei test nelle rilevazioni degli apprendimenti, contro le novità introdotte nell’ordinamento (voto in decimi, certificazione delle competenze, sistema degli esami, ecc.). Senza se e senza ma. Poiché non ho mai apprezzato gli atteggiamenti manichei e le semplificazioni, mi permetto di re-intervenire in materia, per riepilogare lo stato dell’arte con qualche ulteriore aggiornamento, soprattutto in materia di valutazione “di sistema” [1].

Cosa ci dice la valutazione di sistema

Alcune domande preliminari si impongono: ci serve un sistema nazionale di valutazione? Agisce contro o dalla parte della scuola? E ancora: si possono utilizzare gli esiti delle rilevazioni nazionali ed internazionali degli apprendimenti (Ocse, Invalsi, ecc.) per giudicare della bontà di un sistema scolastico?
Certamente le informazioni ricavate dalle indagini citate non ci dicono tutto, ma sono un indizio da non trascurare. Gli ultimi dati disponibili (Indagine Pisa 2009) segnalano un leggero miglioramento negli apprendimenti degli allievi italiani rispetto alla precedente indagine del 2006, accompagnato però da alcuni elementi di criticità che tendono a cristallizzarsi:
a) un divario “storico” tra le regioni del nord, del centro e del sud (che però va riducendosi, anche a seguito di azioni compensative nelle regioni del sud interessate da “obiettivo convergenza”);
b) un divario “storico” tra i risultati degli allievi frequentati diverse tipologie di istituti superiori (con una sofferenza evidente negli istituti professionali e nella formazione professionale);
c) un aumento dell’incidenza dei fattori socio-culturali (contesto ambientali e ceto di appartenenza degli allievi) sul “rendimento” degli allievi;
d) un aumento della dispersione dei risultati, sia tra scuole dello stesso tipo, sia tra gli allievi (sono in aumento sia le fasce di eccellenza, sia le fasce di criticità).
Analoghe evidenze sembrano emergere dagli esiti delle indagini dell’Invalsi, anche se condotte con modalità e per finalità diverse (più per offrire dati informativi alla scuola, piuttosto che per analizzare e confrontare i dati delle singole scuole).
Queste contraddizioni, se lette in termini positivi, ci ricordano che ci sono dei fattori che influiscono positivamente sulla qualità della scuola. Compito di chi svolge funzioni di governo nazionale e locale è rendere espliciti tali fattori, per sviluppare azioni di accompagnamento (quindi politiche pubbliche a livello macro e micro) al fine di un miglioramento complessivo dei risultati.
D’altra parte le indagini comparate segnalano una sostanziale omogeneità della spesa statale pro-capite per alunno tra le diverse regioni italiane, mentre appaiono più marcate le differenze di risorse immesse nel sistema ad opera degli attori locali (Regioni, enti locali, privati, ecc.) con un forte vantaggio per il centro-nord. Questo dato si riverbera soprattutto negli indicatori strutturali (edifici, attrezzature, logistica, servizi di supporto).[2]
Dunque, si pone un problema di equità nella distribuzione delle risorse umane e finanziarie, da collegarsi però alla trasparenza dei risultati: insomma, in una prospettiva federalista sarà sempre più necessario districarsi tra fabbisogni finanziari, standard di funzionamento, costi dei servizi.
Altre ricerche mettono in evidenza lo stretto intreccio tra dotazione di capitale sociale di un territorio (tolleranza, creatività, volontariato, coesione sociale, senso di fiducia) e buoni risultati scolastici: il capitale sociale si costruisce lentamente perché è frutto di virtù civiche che si coltivano e sedimentano nel tempo (e una buona rete di scuole è essa stessa un fattore che contribuisce a costruire questo capitale).
Più difficile diventa isolare i fattori endogeni (preparazione ed impegno dei docenti, ruolo del dirigente, organizzazione scolastica –ad esempio, durata del tempo scuola, dimensione e formazione delle classi, configurazione della docenza – scelte didattiche, tecnologie e supporti didattici, ecc.) e calcolare il loro contributo al miglioramento dei livelli di formazione. La misurazione del “valore aggiunto” è nel nostro paese ai primi passi e si presenta ancora fragile, perché concentra la sua attenzione solo su alcuni dati cognitivi, e si lascia sfuggire una gran quantità di valori educativi (ad esempio, come misurare il valore aggiunto dell’integrazione scolastica dei disabili?).

Valutare non basta

Queste brevi osservazioni possono ben motivare l’enfasi che oggi si pone sui sistemi di valutazione come strategia per stimolare il miglioramento dei risultati scolastici, fermo restando i diversi significati da attribuire al concetto di “scuola migliore”: per formare elite? Per collocare funzionalmente nei posti di lavoro? Per formare cittadini attivi? Per elevare il profilo dei ceti culturali più deboli? Per offrire pari opportunità a tutti? Ecc.
Ma consigliano anche di tenere molto aperto il significato di “valutazione”, che dovrebbe sempre essere distinto in:
a) rilevazione dei dati, misurazione, rielaborazione, comparazione, ecc. (operazioni prettamente docimologiche);
b) lettura e interpretazione dei dati, analisi e riflessività, scelte (operazioni interpretative e decisioni conseguenti);
c) attivazione di misure di accompagnamento (ricerca didattica, formazione del personale, consulenza e coaching, monitoraggio) per favorire processi di miglioramento;
d) rendicontazione sociale e forme di valutazione interna ed esterna (accountability).
Dunque è improprio (come sembra fare la recente legge 10/2011, c.d. “milleproroghe”) chiamare l’insieme di tutte queste misure, strutture e soggetti: “sistema di valutazione” tout court, soprattutto perché un termine così pervasivo rischia di fermare l’attenzione solo sul momento del “controllo” piuttosto che su quello della “promozione” e dell’”accompagnamento”.
Inoltre, il sistema di valutazione dovrebbe essere costruito attraverso un processo fortemente condiviso con il mondo della scuola (nelle sue linee di fondo) ed è quindi auspicabile un percorso che possa coinvolgere più soggetti, in un approccio aperto e plurale, che sia garanzia di successo dell’operazione.
Il sistema di valutazione non può essere pensato solo per le esigenze del sistema (per valutare scuole, valutare dirigenti, valutare apprendimenti), ma dovrebbe richiamare lo scenario dell’autonomia, il ruolo e le responsabilità affidate alle scuole, attraverso l’alimentazione di un clima di reciproca fiducia.
Nel lessico della legge 10/2011 appare solo il termine “valutazione esterna” che finisce per evocare
una forma di “pressione” verso la scuola. Sarebbe importante puntualizzare che un processo di valutazione esterna si intreccia necessariamente con una azione di autovalutazione e che il frutto più significativo è un programma di rendicontazione sociale da parte della scuola verso la propria comunità e stakeholder.[3]

Il patto di fiducia Invalsi-scuole

Occorre che l’intensificazione delle rilevazioni censuarie degli apprendimenti, che riguardano ormai tutte le classi 2^ e 5^ primarie, 1^ e 3^ secondarie di primo grado, 2^ secondarie di secondo grado, sia ricondotta al suo significato “formativo”. Se le prove sono censuarie (e non a campione), così come vuole la legge 176/2007, le informazioni capillari che esse contengono vanno restituite solo alle scuole, per un utilizzo interno, in vista dell’analisi degli apprendimenti, della correlazione tra esiti e pratiche didattiche, delle criticità e positività riscontrabili in ogni contesto.
La conoscenza dei dati (ma soprattutto l’elaborazione) risulta elemento imprescindibile per fondare strategie didattiche e decisioni da parte della scuola e degli insegnanti, ai fini del miglioramento dei livelli di apprendimento. Va pertanto esclusa la pubblicizzazione dei risultati, che potrebbe creare situazioni di competizione tra le scuole e incentivare comportamenti opportunistici (al limite della correttezza) in occasione della somministrazione delle prove. Va anche contrastato il fenomeno, che si sta diffondendo, del teaching to testing (insegnamento finalizzato al superamento dei test), perché introduce elementi di distorsione nella vita didattica delle classi e tende a far coincidere l’apprendimento con la soluzione di quesiti a risposta multipla, con il rischio di impoverire la qualità dell’insegnamento[4].
Diversa è la scelta effettuata in alcune realtà, di impegnare gli insegnanti in attività di ricerca e formazione a partire dall’analisi approfondita dei quesiti estratti dalle diverse rilevazioni (es. Invalsi, ma anche OCSE, IEA, ecc.), per cogliere il rapporto tra struttura dei quesiti, processi cognitivi sottesi, pratiche didattiche più correnti, per stimolare una maggiore riflessione sui metodi di insegnamento in una ottica di apprendimento formativo. Si cita l’esempio dell’Emilia-Romagna, ove sono stati realizzati a cura dell’USR due ampi programmi di ricerca-formazione, denominati progetti ELLE ed EMMA, rispettivamente progetto “emergenza lingua” ed “emergenza matematica”, proprio con l’obiettivo di compiere un’analisi critica del nuovo impianto docimologico e stimolare la capacità di gestirlo in maniera intelligente (cioè, senza le semplificazioni tipiche del testing).
Emblematico di questo percorso è l’analisi degli item che hanno presentato il maggior tasso di insuccesso per i ragazzi, e la loro riformulazione attraverso testi semplificati, supporto di grafici e disegni, imbastitura di strategie di soluzione, ecc. Un simile “trattamento” (che è poi il frutto della mediazione didattica dei docenti) fa capire quale sia il margine di miglioramento di un buon metodo di insegnamento, all’insegna dei principi che sono alla base dell’idea di “valutazione formativa”…

Una valutazione all’inglese?

L’approvazione, in verità assai frettolosa e senza un pubblico dibattito, della legge 10/2011, ripropone la questione della valutazione di sistema, delle sue finalità, dei suoi attori, dei suoi strumenti. Come è noto la legge ipotizza tre diversi soggetti del sistema:
a) l’Invalsi, come soggetto deputato alla misurazione degli apprendimenti;
b) il corpo ispettivo, impegnato nella valutazione delle scuole e dei dirigenti;
c) l’Indire, con compiti di supporto e di miglioramento.
I fatti (anzi, i regolamenti attesi) ci diranno se siamo in presenza di una svolta nel nostro sistema educativo. Qui ci limitiamo a qualche osservazione sul compito attribuito agli ispettori, anche per “fatto personale”…
Diamo anche per scontato che il servizio ispettivo sia ripristinato in tutti i suoi effettivi (335 dirigenti tecnici in pianta organica, a fronte dei poco più di 40 in servizio)[5], che si proceda ad una ridefinizione dei suoi compiti (da non confinare solo nell’area del “contenzioso”), orientandolo verso un sistema di visita alle scuole sul modello inglese dell’Ofsted, che il personale ispettivo sia adeguatamente formato (come è noto, è in atto un concorso per reclutare 145 nuovi ispettori).
Ma come avverrebbe la valutazione delle scuole? Proviamo a ripercorrere qualche ipotesi che si sta cominciando a discutere a livello ministeriale, anche alla luce del controverso andamento delle prime sperimentazioni in atto (“Valorizza”, per la valutazione “reputazionale” dei docenti e “VQS” per la valutazione della performance organizzativa delle scuole).
Apposite equipe (coordinate da un ispettore tecnico, affiancato da due esperti di valutazione tratti da un apposito elenco) avrebbero l’incarico di visitare nell’arco di un triennio tutte le scuole del nostro paese, attraverso sopralluoghi in presenza (ad es. per tre giorni), analisi di documenti, osservazioni, interviste, ecc.. Al termine della visita l’equipe rilascia alla scuola un report (una sorta di check up), con suggerimenti per programmi di miglioramento. Un’analoga informazione è fornita all’Amministrazione scolastica, in modo che questa carta diagnostica della scuola diventi la base su cui andranno negoziati gli obiettivi strategici per il contratto di missione[6] del dirigente scolastico. Questo passaggio appare preliminare rispetto ad ogni ipotesi di valutazione della performance dirigenziale, che non coincide necessariamente con la valutazione della scuola, e dovrebbe piuttosto “apprezzare” il contributo specifico apportato dal dirigente al contesto professionale in cui opera (in sostanza, il suo progetto di intervento).
La valutazione dovrebbe focalizzarsi sui risultati degli apprendimenti (prove ma anche risultati a lungo termine), su aspetti didattici (cosa succede in classe?), su profili organizzativi (struttura, comunicazione, funzioni, sistema delle decisioni), sulla capacità di interazione esterna (partnership), sul clima sociale ed etico (valori), sulle professionalità ed i comportamenti dei diversi operatori (in particolare sulle forme di leadership).
L’osservazione esterna potrebbe essere preparata da una incisiva autoanalisi interna, sulla base di una griglia di indicatori standardizzati, che lascino comunque anche uno spazio per l’autonoma descrizione della scuola da parte dei soggetti interni. Il modello CAF potrebbe essere un buon punto di partenza, perché consente di enucleare grappoli di variabili significative riferite ai processo e ai risultati[7].
La dinamica valutativa interno-esterno, dunque, con il coinvolgimento di tutti i membri della scuola, degli organi collegiali, di una rappresentanza dei genitori, della rete degli stakeholder, si traduce in una sorta di controllo di gestione per introdurre elementi di responsabilità nell’organizzazione scolastica, in vista dell’assunzione di decisioni per il miglioramento[8].

Si può partire con una sperimentazione?

Un modello simile richiede notevoli risorse. Immaginando che un’equipe coordinata da un ispettore possa visitare 20 scuole ogni anno, nel triennio servirebbero circa 200 equipe dedicate a tempo pieno alla valutazione delle scuole. Sono 600 addetti, come il sistema di valutazione olandese, un paese 4 volte più piccolo del nostro. Irrealizzabile? Si vedrà! Nel frattempo è consigliabile mettere alla prova il modello sperimentandolo in un numero limitato di scuole che siano disponibili a farlo. Le scuole dovrebbero aderire volontariamente al progetto, tramite adesione formalizzata dagli organi competenti, con possibilità di una contestualizzazione e negoziazione delle caratteristiche dell’intervento esterno. La partecipazione dovrebbe implicare un riconoscimento economico alla scuola: più che di un premio o di una sanzione dovrebbe trattarsi di un incentivo anche economico (iniziale) ad intraprendere un percorso di miglioramento, finanziando comportamenti virtuosi (ricerca, formazione in servizio, valutazione, consulenza, documentazione, ecc.) che accompagnano concrete azioni nella scuola.[9]
Ovviamente la partecipazione al progetto richiede la disponibilità alla ispezione e alla valutazione esterna. Nel caso di raggiungimento degli obiettivi individuati, certificato dalla valutazione esterna, verrebbe erogato un ulteriore contributo di riconoscimento (premialità) per il percorso realizzato. Spetterà poi alla scuola, nelle sue diverse componenti, decidere l’utilizzazione della risorsa assegnata inizialmente e di quella erogata a consuntivo. L’erogazione potrà riferirsi a singoli docenti (o gruppi di docenti) che abbiano contribuito ad ottenere i risultati richiesti, mentre il riconoscimento al dirigente sarà collegato alla sua valutazione ed allo stipendio di risultato.
Non è in gioco la valutazione specifica dei singoli docenti, ma il loro apporto alla performance complessiva. Un principio etico e organizzativo dovrebbe essere salvaguardato: i docenti considerati più efficaci dovrebbero mettere le loro doti a disposizione del miglioramento complessivo del loro istituto, cioè essere persone generose, pro-attive, capaci di suscitare comportamenti positivi negli allievi e nei colleghi.
Il focus sul funzionamento complessivo dell’istituto è dunque propedeutico a sviluppare una valutazione di chi in esso opera; tuttavia la valutazione dell’istituto non coincide con la valutazione dei suoi operatori (dirigente e insegnanti), ma ne rappresenta lo sfondo conoscitivo indispensabile. Invece, l’osservazione in diretta di una scuola da parte di una equipe esterna dovrebbe essere finalizzata ad incrementare la capacità della scuola di riflettere sui propri esiti (successi e insuccessi) e di assumere adeguate strategie di miglioramento e sviluppo. Questo richiede un processo interattivo e non solo una misurazione esterna (sono dunque necessari una restituzione “dinamica” delle informazioni raccolte ed un franco dialogo interno-esterno)[10].

Da dove ripartire?

Nel corso degli ultimi mesi le vicende valutative sono state oggetto di vigorose polemiche, anche per qualche incidente di percorsi non voluto. Occorre ristabilire un clima di fiducia tra gli operatori scolastici, ridefinire il “contratto formativo” tra Invalsi e scuole, riconfermando la riservatezza della restituzione dei dati alle scuole. Questo Patto andrebbe chiaramente esplicitato all’inizio del nuovo anno scolastico, per evitare i possibili fraintendimenti e trovare una sua sanzione formale nelle nuove Direttive che dovrebbero regolare per i prossimi anni le azioni dell’istituto nazionale[11]. Anzi, sarebbe opportuno che le azioni di supporto formativo fossero incrementate e che progetti di ricerca sulle prove di valutazione (e sul loro senso) fossero diffusi sull’intero territorio nazionale, anche con fondi specifici del budget dell’Invalsi, colmando una lacuna nel rapporto tra scuole e sistema di valutazione, attraverso la costituzione in ogni scuola di un presidio valutativo (e di una apposita figura docente a ciò dedicata), in grado di “gestire” e “filtrare” le sempre più complesse problematiche valutative. Sarebbe la prova “provata” che è il sistema di valutazione a lavorare per le scuole e non viceversa.
L’uso pubblico dei dati valutativi (comunque non riferito alle singole unità scolastiche) dovrebbe essere sobrio, anche da parte delle autorità centrali, poiché la comparazione tra una rilevazione e l’altra nel corso degli anni (in termini di miglioramento o peggioramento dei risultati) è del tutto aleatoria, in quanto il set delle prove viene modificato totalmente ogni anno (a differenza di quanto avviene con Ocse-Pisa), proprio per consentire alle scuole di fare un uso didattico delle prove. In caso contrario sarebbero più affidabili prove a campione, ma questa scelta modificherebbe l’intento di restituire informazioni utilizzabili da ogni scuola per la propria azione.
Ed è questa la finalità che ogni buon sistema di valutazione dovrebbe aspirare a realizzare.

[1] Sulle questioni relative alla valutazione degli apprendimenti si rimanda a G.Cerini, Si fa troppo presto a dire (si o no alla) valutazione, in “Rivista dell’istruzione”, n. 3, maggio-giugno 2011, Maggioli e G.Cerini, Il tormentone della certificazione delle competenze, sul sito Educazione & Scuola, giugno 2010: http://www.edscuola.it/archivio/riformeonline/tormentone_della_certificazione.htm

[2] Una analisi della spesa per l’istruzione, corredata di indicatori di confronto tra le diverse regioni, è contenuta in Regione Emilia-Romagna, Report sul sistema educativo in Emilia-Romagna, I Quaderni, RER, 01, Bologna, 2011.

[3] D.Previtali, Il bilancio sociale nella scuola, Edizioni Lavoro, Roma, 2010. Inoltre nel volume di G.Cerini (a cura di), Il nuovo dirigente scolastico. Tra leadership e management, Maggioli, Rimini, 2010 sono contenuti alcuni saggi di A.Paletta, M.Castoli, D.Previtali, A.Martini sul tema della valutazione di istituto in una ottica di sistema.

[4] E’ opportuno anche aprire un dibattito sulla presenza di prove nazionali strutturate all’interno degli esami di stato (al momento nell’esame di licenza media). Se è giusto introdurre elementi di comparazione dei risultati di raggio più ampio del singolo istituto, certamente appare sopravvalutato il “peso” che la prova nazionale viene oggi ad assumere nell’economia dei punteggi, ad esempio a scapito dell’apprezzamento complessivo del curricolo dell’allievo. Sulla questione è spesso intervenuto sul “Corriere della Sera” Roger Abravanel, con articoli assai polemici: cfr. R.Abravanel, Benevenuti al Sud (con 100 e lode), in “Il Corriere della Sera”, 2 agosto 2011.
Cfr.: http://www.corriere.it/cronache/11_agosto_02/benvenuti-al-sud-con-cento-e-lode-roger-abravanel_fbb6f542-bcc6-11e0-b530-d2ad6f731cf9.shtml

[5] Il recente DPR 3 giugno 2011, n. 132, che apporta modifiche al Dpr 17/2009 di riforma del Ministero dell’Istruzione, ha ulteriormente ridotto la dotazione organica dei dirigenti tecnici con funzioni ispettive a 301 unità.

[6] Il contratto di missione dovrebbe sostituire il generico incarico dirigenziale conferito dal Direttore Generale dell’USR al singolo dirigente scolastico, sulla base di quanto previsto dall’art. 25 del D.lgs 165/2001 e dagli specifici contratti nazionali di lavoro. Una riflessione sul tema è contenuta in G.Barzanò, Leadership per l’educazione. Riflessioni e prospettive dal dibattito globale, Armando, Roma, 2008.

[7] N.Arcangeli, CAF – Common Assessment Frameworkm in G.Cerini-M.Spinosi (a cura di), Voci della Scuola, X, Tecnodid, Napoli, 2011.

[8] A.Paletta, Scuole responsabili dei risultati. Accountability e responsabilità sociale, Il Mulino, Bologna, 2011.

[9] Avevamo già suggerito questa ipotesi in G.Cerini, …e se a scattare fosse il merito? In www.edscuola.it (rubrica Riforme on line).

[10] M.Castoldi, Si possono valutare le scuole? Il caso italiano e le esperienze europee, Sei, Torino, 2008.

[11] Con l’a.s. 2010-11 cessa il raggio d’azione della Direttiva n. 74 del 15 settembre 2008, che aveva regolato per un triennio l’attività dell’istituto nazionale di valutazione (www.invalsi.it ).

da ScuolaOggi 19.08.11