lavoro, partito democratico

“Lavoro, quella trappola chiamata contratto unico”, di Luigi Mariucci

Sul tema del cosiddetto “contratto unico” circolano molte proposte, tra loro radicalmente diverse, il cui solo tratto comune consiste in realtà nell’aggiungere un “contratto in più”. Rimarrebbero infatti in vigore molte altre forme contrattuali, dall’apprendistato al lavoro a termine, dal lavoro in affitto ad altre tipologie di contratti atipici. L’aggettivo “unico” è quindi mistificatorio: viene utilizzato a fini seduttivi. Tanto che da ultimo si usa l’espressione, certo inestetica ma più vera, di contratto“prevalente”
Per ricostruire il senso della proposta occorre quindi risalire alla sua formulazione iniziale, importata in Italia ma dovuta in realtà a due economisti francesi (Cahuc e Kramarz), che ha ispirato in Francia il cosiddetto contratto di “nouvelle embauche”, dichiarato poi illegittimo dalla Corte d’appello di Parigi tra l’altro con la seguente e icastica motivazione: «È paradossale pensare che per aumentare l’occupazione si debbano liberalizzare i licenziamenti».
L’idea originaria, per quanto criticabile, era tuttavia chiara: essa consisteva nello scambio tra un nuovo contratto di assunzione a termine, assistito da varie provvidenze economiche (quali una indennità in caso di cessazione del rapporto) e abrograzione della tutela reale contro i licenziamenti ingiustificati, di cui all’art.18 dello Statuto dei lavoratori. Questa idea era già stata al centro del libro bianco del governo Berlusconi del 2001 e risponde a una filosofia schiettamente liberista: secondo questa impostazione meno vincoli ci sono nell’uso della forza-lavoro meglio è, perché più cresce l’occupazione. Tale impostazione viene reiterata in maniera ossessiva, a dispetto delle controevidenze empiriche: basti dire che il mercato del lavoro americano, tra i più liberalizzati del mondo occidentale, è stato a lungo indicato come modello, salvo scoprire che ora negli Usa ci sono più disoccupati (circa venti milioni di persone) che in Italia.
Il pensiero liberista tuttavia non demorde. Questa idea dello scambio tra abrogazione della legge sui licenziamenti e nuova disciplina delle assunzioni è infatti il cuore delle molteplici proposte da tempo avanzate da Pietro Ichino, il quale tuttavia da ultimo le ha edulcorate: nella più recente versione del suo progetto infatti l’art.18 dello Statuto verrebbe abrogato solo per i nuovi assunti, lasciandolo inalterato per i già occupati. Il che introdurrebbe in realtà un nuovo e inaccettabile dualismo tra quanti sono già entrati nel mercato del lavoro e coloro che aspirano ad entrarci. Si aggiunga che in quel progetto verrebbero liberalizzati per tutti i licenziamenti per motivi economici, proprio quelli che già sono ampiamente attuati nelle molteplici gestioni delle crisi aziendali. Diversa è la proposta avanzata a suo tempo da Tito Boeri, centrata sull’idea di una assunzione a termine, con progressiva acquisizione delle tutele di stabilità. Qui il dubbio principale consiste nel chiarire che cosa accade se al termine del triennio il lavoratore non viene assunto a tempo indeterminato. Si ricomincia da capo, in una sorta di infinito gioco dell’oca?
Infine altri disegni di legge, come quello firmato tra gli altri da Cesare Damiano, ipotizzano un “contratto unico di inserimento”, di tutt’altro tenore, e molto vicino alla figura dell’apprendistato o dei vecchi contratti di formazione-lavoro, il cui senso è legato alla previsione parallela di una forte incentivazione fiscale alle assunzioni a tempo indeterminato. Tutte le proposte qui richiamate si collegano poi, direttamente o indirettamente, alla decisiva questione della riforma