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“L’Italia non è un Paese per giovani”, di Lorenzo Salvia

All’Associazione italiana giovani avvocati si possono iscrivere civilisti e penalisti che hanno fino a 45 anni. Quando di anni ne aveva 44 un certo Anthony Charles Lynton Blair non solo aveva fatto già una discreta carriera di lawyer, ma con il nomignolo di Tony si era anche trasferito al numero 10 di Downing Street come primo ministro della Gran Bretagna. La responsabile dei pionieri, la componente giovane della Croce Rossa italiana, si chiama Fiorella Caminiti e di anni ne ha 47. Alla stessa età, in un Paese che di pionieri se ne intende, Barack Obama si era già lasciato alle spalle la carriera di senatore per entrare alla Casa Bianca. Non è un Paese per giovani l’Italia. Ma un Paese dove anche chi è in gamba e preparato fatica ad affermarsi nel lavoro e a diventare indipendente dalla propria famiglia prima dei 40 anni. Un Paese che vede crescere la triste categoria dei giovani-adulti: uomini e donne che magari hanno già superato il mezzo del cammin di loro vita ma che sul lavoro — come ruolo, stipendio e considerazione — sono fermi ancora alla gavetta. A trasformare in numeri e percentuali quello che ci insegna l’esperienza di tutti i giorni è «Urg! Urge ricambio generazionale» una ricerca curata dal Cnel, Il Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro, e dal Forum nazionale dei giovani, che sarà presentata stamattina a Roma.

Certo, l’Italia è sempre stato un Paese a bassa mobilità, dove solo il 3 per cento dei figli degli operai riesce a salire qualche gradino della scala sociale per diventare libero professionista o imprenditore. Ma il guaio vero è che negli ultimi anni le cose sono peggiorate. Il problema viene analizzato da vari punti di vista ma non c’è un solo dato che faccia sorridere. È diventato più difficile trovare il primo lavoro, anche se precario, anche se sottopagato, anche se non era quello che uno sognava da piccolo. Nel 2005, ad un anno dalla laurea, aveva trovato un posto più della metà dei giovani italiani, il 56,9 per cento. Nel 2006 siamo scesi al 53 per cento, nel 2007 al 47 per cento. E con la crisi che non molla è difficile immaginare un’inversione di tendenza. Anche i fortunati che un posto l’hanno trovato faticano sempre di più a fare carriera. Nel 1997 i dirigenti con meno di 35 anni erano il 9,7 per cento del totale, dieci anni dopo siamo scesi al 6,9 per cento. Stessa tendenza per il livello intermedio dei quadri, scesi dal 17,8 al 12,3 per cento. Chi entra in azienda si deve accontentare di rimanere soldato semplice, anche se magari ha le stesse responsabilità e mansioni di chi, assunto 20 anni prima, ha un livello dieci volte superiore. Non è solo un problema di galloni e medaglie sul petto. Ma una questione di soldi che rinvia la possibilità di mettere su famiglia e trasformarsi da eterni figli in genitori.

Può essere logico che un giovane guadagni in media meno di un adulto. È meno logico che questa differenza stia diventando sempre più grande. Nel 2003 il salario medio tra i 24 e i 30 anni era di 20 mila euro lordi, cioè più dell’80 per cento di quello nella fascia d’età tra i 50 e i 60 anni. Nel 2007, come si dice in questi casi, la forbice si è allargata e adesso un giovane ha uno stipendio medio pari al 73,8 per cento di un adulto. Quasi sette punti in meno. Il risultato è che la generazione nata dalla fine degli anni Sessanta all’inizio degli anni Ottanta è quella dei baby losers. Losers cioè perdenti, come spiega il sociologo francese Louis Chauvel. Uomini e donne che hanno studiato più dei loro genitori, teoricamente hanno trovato un lavoro migliore. Ma che in realtà guadagnano meno di loro, devono rinunciare allo stile di vita nel quale erano cresciuti e magari farsi ancora aiutare da mamma e papà. Ecco, in questo, siamo quasi in testa alla classifica. Sei italiani su dieci, nella categoria under 30, fanno affidamento sul portafoglio dei genitori. In Europa solo la Spagna è messa peggio di noi. E vista la situazione non è una sorpresa se i giovani italiani sono tra i più insoddisfatti d’Europa. Tra i 15 e i 29 anni si dichiara contento l’82 per cento mentre quasi tutti i Paesi europei superano il 90 per cento.

Se dal mondo del lavoro in generale passiamo a quello delle professioni — come avvocato, commercialista o giornalista — il quadro diventa ancora più buio. Qui più che scegliere il corso di laurea bisognerebbe scegliersi i genitori con relativo studio ben avviato. In buona parte dei casi il mestiere si trasmette per via ereditaria. Non c’è solo il caso limite dei notai, dove più di 800 su 5 mila, circa uno su cinque, ha come collega almeno un genitore. Quasi la metà dei figli degli architetti, il 43,9 per cento, si laurea in architettura, ad esempio. E sempre intorno al 40 per cento restiamo per gli avvocati, per i farmacisti, per gli ingegneri e per i medici. Anche questo, sottolinea la ricerca, finisce per essere un ostacolo al ricambio generazionale. In dieci anni il numero dei professionisti di tutte le categorie con meno di 35 anni è sceso dal 30 al 22 per cento. I medici con meno di 35 anni si sono quasi dimezzati. Negli stessi dieci anni è calato anche il numero dei giovani avvocati: quelli che si sono iscritti all’ordine prima di aver girato la boa dei 30 anni sono scesi dal 43,7 al 40,4 per cento. E pure nella categoria dei docenti universitari l’età media continua a salire senza sosta: gli under 35 erano l’8,4 per cento del totale nel 1997 e sono scesi al 7,4 per cento dieci anni dopo. «La beffa — dice Cristian Carrara, portavoce del Forum nazionale dei giovani — è che negli ultimi dieci anni di ricambio generazionale si è parlato tanto. Eppure la situazione è peggiorata da ogni punto di vista».

Gli ostacoli ci sono, certo, ma c’è anche il rischio che diventino un alibi. Insomma, se i vecchi resistono, siamo proprio sicuri che i giovani non abbiano colpe? «Il problema c’è — ammette Carrara — perché pure i giovani che vivono sulla propria pelle questo problema faticano a trasformare l’amarezza personale in un impegno collettivo». Sempre alla politica si finisce: «Uno può anche pensare che la politica fa schifo e che sono tutti corrotti. Ma poi è la politica che decide sugli ammortizzatori sociali, tanto per fare un esempio. E, se non si partecipa, non c’è da sorprendersi se per pagare le pensioni dei genitori si penalizzano i figli». In questo la politica è uno specchio fedelissimo dell’Italia.

I parlamentari al di sotto dei 35 anni sono il 5,6 per cento del totale. Archiviata la fiammata del dopo Mani pulite, quando sull’onda delle facce nuove eravamo arrivati al 12,4 per cento, siamo tornati ai livelli della prima Repubblica. Il risultato è che la fascia d’età tra i 50 e i 60 è sovrarappresentata, cioè pesa in Parlamento più di quanto pesa nella società. Mentre quella dei giovani è sotto rappresentata, cioè pesa meno in Parlamento che nella società. E le prospettive sono fosche se ad invecchiare è anche quello che dovrebbe essere il vivaio della politica. Nei consigli comunali gli eletti con meno di 35 anni erano il 28 per cento nel 1997 e sono diventati il 19,2 per cento nel 2007. Stessa tendenza nelle Province e nelle Regioni dove pure il calo è meno marcato. Un sistema chiuso, insomma, come quello delle aziende. I consigli d’amministrazione dei grandi gruppi sono spesso una compagnia di giro: l’83 per cento dei cda ha almeno un componente in comune con un altro, il 44 per cento ne ha due, il 25 per cento tre. E anche tra gli imprenditori i giovani sono sempre di meno: gli under 35 erano il 22 per cento nel 1997, dieci anni dopo erano scesi al 15 per cento. Insomma, avvocato, imprenditore o impiegato semplice, chi in Italia si affaccia al mondo del lavoro si deve preparare ad una lunga gavetta. Oppure studiare bene un paio di lingue straniere e tenere il passaporto pronto.

Corriere della Sera, 19 marzo 2009