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«Detassare il lavoro femminile: una spallata positiva per l’economia», di Pietro Ichino

La proposta della detassazione selettiva del reddito di lavoro femminile è di mio fratello Andrea e di Alberto Alesina, ma la condivido totalmente. Come molte altre nostre idee, anche questa nasce da dialoghi e scambi molto intensi nei quali lui insegna a me qualcosa di economia e io forse gli insegno qualcosa di diritto. La proposta che è stata citata è quella della detassazione selettiva, cioè di una detassazione che dia un robusto incentivo al lavoro femminile, in funzione del perseguimento dell’obiettivo di Lisbona, cioè di un tasso di occupazione femminile del 60%.
L’argomento economico a sostegno di questa proposta è fortissimo: si osserva che domanda e offerta di lavoro femminile sono molto più elastiche, mediamente, di domanda e offerta di lavoro maschile: quindi cento euro spesi dall’erario per incentivare il lavoro femminile rendono molto di più, in termini di aumento del tasso di occupazione, di quanto non renderebbero se spesi sul lavoro maschile o in modo indifferenziato.
L’obiezione che viene mossa a questa scelta è invece essenzialmente di carattere giuridico: «Non è consentito porre in essere una discriminazione di questo genere e di questa entità fra i due generi». Io credo che l’obiezione sia superabile, anche se non mi nascondo che il problema c’è, anche perché sul punto mancano giurisprudenza e dottrina, in quanto la cosa non è ancora stata sperimentata. Ma a me sembra che il divieto comunitario non si applicherebbe se la misura venisse impostata e motivata come «azione positiva», finalizzata all’obiettivo di Lisbona, quindi all’adempimento di un obbligo comunitario di superamento di una situazione oggettivamente discriminatoria (…), quindi come misura a termine: conseguito l’obiettivo di una parità sostanziale, la misura recede e gradualmente viene riassorbita. Messa in questi termini, io sono convinto che la misura potrebbe agevolmente superare il vaglio della Corte di Giustizia. Anche perché le sentenze della Corte di Giustizia come questa ultima sulle pensioni si pongono in una posizione di rottura non rispetto a iniziative di questo genere, come quella della detassazione selettiva, ma in riferimento al vecchio impianto protettivo del lavoro e del lavoro femminile in particolare.(…)
L’intero risparmio che ci si può attendere da una graduale parificazione dell’età pensionabile delle donne rispetto a quella degli uomini, e anche risorse ulteriori, dovrebbero essere subito investite in una robusta detassazione del lavoro femminile. Noi – intendo il Partito democratico – stiamo lavorando adesso sulla detassazione dei primi mille euro di reddito di lavoro mensile. Le cifre sono queste: la detassazione totale dei primi 1.000 euro di reddito per tutti i lavoratori, costerebbe 17 miliardi; se noi applichiamo delle compensazioni per cui chi guadagna oltre una soglia media, per esempio oltre i 40.000 euro annui, non abbia vantaggio da questa detassazione e quindi aumentiamo l’aliquota sui redditi maggiori in modo che il risultato fiscale per la fascia media sia all’incirca in pareggio, il costo può ridursi a 10.000 o anche a 8-9.000 euro. È questa una misura che avrebbe delle ragioni molto solide sul piano della politica anticiclica: perché è una misura che va direttamente a potenziare i consumi e non ha effetti distorsivi sul tessuto delle imprese: lascia che sia il mercato a dirigere tutte queste risorse che vengono immesse nel sistema verso la soddisfazione dei bisogni reali della gente. È la gente che sceglie come spendere questi soldi e non lo Stato a salvare i vecchi dinosauri. È dunque una misura molto più difendibile sul piano dei princìpi generali rispetto ai salvataggi di questa o quella grande impresa; e potrebbe essere la grande occasione per sperimentare anche la detassazione selettiva. Per esempio, mantenendo il costo fra gli 8 e i 10 miliardi, si può pensare di lasciare 400 o 500 euro annui di Irpef a carico del lavoratore maschio con un reddito di 13.000, azzerando invece l’Irpef per la lavoratrice donna con reddito uguale. Oggi è più facile far passare un’operazione di questo genere, proprio perché siamo in un mondo in crisi: (…) i tassi di interesse sul debito dello Stato si abbassano, producendo risparmi che si misurano in molti miliardi. In questo momento, dunque, disponiamo di risorse di cui non disponevamo un anno fa e probabilmente non disporremo fra due o tre anni, quando l’economia si sarà riassestata. Per questo credo che sia il momento di batterci a fondo su questo tema, di dedicare una quantità di energie intellettuali e di impegno politico maggiore di quanto non stiamo facendo.
Se ci crediamo, non dobbiamo lasciarci intimidire dall’obiezione giuridica; l’obiezione giuridica è superabile. Non è discriminazione a vantaggio delle donne: io la definirei piuttosto come la spallata necessaria per raggiungere l’obiettivo di Lisbona, destinata poi, raggiunto il tasso di occupazione femminile che ci siamo prefissi, a un graduale riassorbimento. Esistono delle differenze di trattamento che costituiscono parte integrante di un equilibrio complessivo discriminatorio; per esempio, tutto quello che è protezione paternalistica rientra evidentemente nell’equilibrio deteriore. Ci sono invece misure differenziate che sono necessarie per uscire da quell’equilibrio e spostarsi su di un altro. La distinzione fondamentalmente è questa. Ora, come sempre, spostarsi da un equilibrio deteriore a un equilibrio più virtuoso, è cosa difficile, che può avvenire per uno choc, in modo traumatico, oppure per lenti movimenti geologici; ma può anche non avvenire affatto. Comunque noi abbiamo bisogno che i tempi di questo spostamento non siano geologici. Se ci poniamo in quest’ottica, la detassazione selettiva è l’unica misura drastica, l’unica “spallata” che consenta di compiere questa operazione in tempi relativamente brevi. (…)
Ho girato molto l’Italia negli ultimi mesi per discutere di queste cose: se faccio il censimento delle obiezioni che ho raccolto, quella della illegittimità sul piano comunitario rimane l’unica di un certo spessore. Se questa cade, veramente non vedo un’obiezione seria a questa misura, che dal punto di vista macro-economico appare la più semplice ed efficace. Il giorno in cui una “forzatura” di questo genere portasse diverse centinaia di migliaia di donne in più nelle nostre forze di lavoro, a quel punto sarà l’intero sistema a esigere la produzione dei servizi necessari per consentire a tante donne di lavorare; e sarà proprio il maggior volume di reddito prodotto a fornire il finanziamento necessario. Il lavoro oggi svolto in modo meno produttivo come lavoro domestico diventerà lavoro professionale nel settore dei servizi, svolto in modo molto più produttivo. Insomma si sarà messo in atto un grande gioco a somma positiva, nel quale tutti avranno da guadagnare, anche i maschi. Più ci ragiono e ne discuto, più mi convinco che sia una misura utilissima, non soltanto sul piano della promozione del lavoro femminile, ma anche e soprattutto sul piano generale, per rimettere in moto il nostro sistema economico, per uscire da una situazione nella quale il tasso di crescita da vent’anni è permanentemente la metà rispetto a quello medio europeo. C’è bisogno di una «spallata»; e non vedo in quale altro modo potremmo darla.
Pietro Ichino, l’Unità del 14 aprile 2009