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“L’identità è una matrioska: somma di incontri e storie”, di Claudio Magris

Confini La disputa su lingue e dialetti ripropone il tema delle patrie molteplici. Il senso di appartenenza e il dialogo con le diversità. Vivere le radici è l’opposto del localismo folcloristico
Le dispute agosta­ne sui dialetti e gli inni nazionali o locali possono essere tutte sfatate da una lapidaria riflessione di Raf­faele La Capria sulla diffe­renza tra essere napoletani e fare i napole­tani.

Essere napoletani — o milanesi, trie­stini, lucani — significa sentirsi spontanea­mente legati al luogo natio in cui ci si è ri­velato il mondo, amare i suoi colori e sapo­ri che hanno segnato la nostra infanzia, parlare il suo linguaggio — lo si chiami o no dialetto — indissolubilmente legato al­la fisicità delle cose che ci circondano e al­la loro musica; pastrocio , per me triestino, non sarà mai la stessa cosa del suo equiva­lente «pasticcio».

Fare i napoletani o i lombardi falsifica questa spontanea autenticità in un’artifi­ciosa e pacchiana ideologia, aver bisogno di farsi fotografare sullo sfondo del Vesu­vio o di inventarsi antenati celti, indossare qualche pittoresco e patetico costume fol­cloristico per mascherare l’insicurezza del­la propria identità. Chi sproloquia sui dia­letti contrapponendoli all’italiano inquina la loro naturalezza, degrada la loro poesia a posa.

Il dialetto è una peculiarità fondamenta­le e ben lo sa chi, come me, lo parla corren­temente ogni giorno a proposito di qualsia­si argomento, ma spontaneamente, non per rivendicare qualche stupida identità gelosamente chiusa, pronta ad alzare il ponte levatoio per difendere la propria sbandierata purezza. L’autarchia spiritua­le, come l’endogamia, produce malforma­zioni fisiche e culturali. La diversità è crea­tiva solo quando, nell’affettuoso riconosci­mento di se stessa, si apre al riconoscimen­to e all’amore di altre diversità, egualmen­te necessarie al mosaico del mondo e alla varietà della vita. La verità umana è nella relazione, in cui ognuno cresce e si trasfor­ma senza snaturarsi, ha scritto Édouard Glissant, esortando a non sprofondare le radici nel buio atavico delle origini bensì ad allargarle in superficie, come rami che si protendono verso altri rami o mani che si tendono per stringerne altre.

Per parafrasare un celebre detto di Dan­te, l’amore per l’Arno — ossia per il luogo natale — e quello per il mare, patria uni­versale, sono complementari. Il rullo com­pressore dei nazionalismi centralisti che ha spesso schiacciato le peculiarità e le au­tonomie locali è inaccettabile, ma lo è al­trettanto il rullo compressore dei microna­zionalismi locali, pronti a schiacciare le mi­noranze ancor più piccole viventi al loro in­terno. L’ipotesi del friulano quale lingua scolastica ufficiale aveva messo subito in allarme, a suo tempo, la minoranza bisiaca parlante bisiaco (peraltro non troppo dissi­mile) che vive nel Friuli-Venezia Giulia.

Una distinzione fra lingua e dialetto è scientificamente insostenibile; sappiamo benissimo, ad esempio, che il friulano ha una sua compiuta organicità, strutturale e storica. Non so se ciò renda necessario in­segnare l’inglese o la fisica in friulano e non credo che per questo i miei avi, i miei nonni e mio padre, friulani, mi considere­rebbero un rinnegato. Diversi sistemi lin­guistici hanno diverse possibilità, egual­mente importanti ma appunto differenti. Una delle più universali liriche che io ab­bia mai letto — l’ho riportata tempo fa sul «Corriere» — è una poesia di dolore per la morte di un bambino, creata da un ignoto poeta Piaroa, un gruppo di indios dell’Ori­noco che quarant’anni fa erano soltanto tremila e forse — non lo so — oggi sono estinti.
Quella poesia è degna di Saffo (che pe­raltro scriveva in dialetto eolico) o di Saba; non credo tuttavia che in lingua Piaroa si possano scrivere La critica della ragion pu­ra, le Ricerche sopra la natura e le cause della ricchezza delle nazioni o la Comme­dia.

Ciò non significa negarle universalità, bensì prender atto di diverse possibilità e modalità di esprimerla. Herder, lo scritto­re tedesco contemporaneo di Goethe, scor­geva in Omero e nella Bibbia la creatività aurorale e perenne della poesia, ma la tro­vava pure nell’anonima canzone popolare lettone ascoltata alla festa del solstizio d’estate.

Ogni luogo — come dice Alce Nero, guerriero Sioux e grande scrittore analfa­beta — può essere il centro del mondo, piccolo o grande esso sia, molti o pochi sia­no i suoi abitanti — come i Sorbi che sono andato a visitare in Lusazia, i Cici o istroro­meni che secondo l’ultimo censimento era­no 822, un popolo a un terzo del quale ho stretto la mano, o gli abitanti di Wyimy­sau, un paesino in Polonia, che parlano una lingua unicamente loro. L’elenco po­trebbe continuare a lungo, anche se di con­tinuo muore qualche lingua, soggetta co­me gli uomini alla caducità. Ma il piccolo non è bello in quanto tale, come vuole un retorico slogan; lo è se rappresenta e fa sentire il grande, se è una finestra aperta sul mondo, un cortile di casa in cui i bam­bini giocando si aprono alla vita e all’avven­tura di tutti.

L’identità autentica assomiglia alle Ma­trioske, ognuna delle quali contiene un’al­tra e s’inserisce a sua volta in un’altra più grande. Essere emiliani ha senso solo se im­plica essere e sentirsi italiani, il che vuol di­re essere e sentirsi pure europei. La nostra identità è contemporaneamente regionale, nazionale — senza contare tutte le vitali mescolanze che sparigliano ogni rigido gio­co — ed europea; del nostro Dna culturale fanno parte Manzoni come Cervantes, Shakespeare o Kafka o come Noventa, gran­de poeta classico che scrive in veneto. È una realtà europea, occidentale, che a sua volta si apre all’universale cultura umana, foglia o ramo di quel grande, unico e varie­gato albero che era per Herder l’umanità.

I tromboni del localismo non possono capire la poesia, la potenziale universalità del dialetto. Sviluppando un’intuizione di Croce, Marin, notevolissimo poeta in gra­dese, distingueva «poesia in dialetto» e «poesia dialettale». La prima è semplice­mente poesia tout court , che può essere an­che grandissima esprimendosi nella lin­gua che le è congeniale, il veneziano di Gol­doni o il viennese di Nestroy. La seconda è priva di universalità, è legata all’immedia­tezza vernacola e viscerale della peculiarità locale e incapace di toccare il cuore di chi non partecipa di quella peculiarità. Pure es­sa può essere molto simpatica nella sua co­lorita vitalità, ma non è poesia. Peraltro pu­re questa sua vitalità viene profanata dai cultori del geloso localismo, che senza vo­lerlo la ridicolizzano nelle loro pretese di purezza originaria, come l’acqua del Po ver­sata nel Po, non consigliabile da bersi.

C’è e c’è stata una sacrosanta rivendica­zione del dialetto quale espressione di clas­si subalterne e sfruttate, tenute a lungo lontane dalla cultura nazionale dominante e per tale ragione iniquamente disprezzate da chi le aveva ridotte in tale condizione. C’è, fra le tante, un’incisiva testimonianza di Guido Miglia, lo scrittore istriano scom­parso non molto tempo fa, che visse la drammatica esperienza dell’esodo dalla sua terra, alla fine della seconda guerra mondiale, da italiano che amava il suo pae­se senza indulgere ad alcun pregiudizio an­tislavo. Miglia ricorda come, quando inse­gnava nell’interno dell’Istria, ci fosse fra i suoi scolari uno che sapeva dire soltanto pasculat , perché portava le greggi al pasco­lo, ed era perciò tagliato fuori dall’istruzio­ne scolastica.

Come ha capito don Milani a Barbiana, agendo in conseguenza, anche chi sa espri­mersi solo con il linguaggio del suo ele­mentare vissuto quotidiano si esprime fon­dandosi su un’esperienza reale e può dun­que possedere una reale ancorché sempli­ce cultura, capace di unire con istintiva co­erenza la propria vita, la propria visione del mondo e i propri giudizi sul mondo. Tale cultura, anche se poco autoconsapevo­le ma vissuta con tutta la propria persona, può essere più profonda di quella più sofi­sticata ma orecchiata senza essere fatta ve­ramente propria. Una pretesa cultura «al­ta » che ricacci brutalmente in basso quelle linfe — da cui nasce ogni cosa e da cui è nata quindi anch’essa — è ottusamente prevaricatrice, e lo è pure un’egemone cul­tura centralista che comprima le diversità locali che hanno contribuito e contribui­scono a formarla, così come — Dante inse­gna — i diversi volgari d’Italia hanno co­struito il volgare italiano. Reprimere que­sti vitali processi è non solo ingiusto, ma anche autolesionista.

Il ragazzino inizialmente capace di dire soltanto pasculat dev’essere compreso nel­le ragioni storico-sociali che lo hanno emarginato e aiutato a riconoscere se stes­so e a conservare in sé le linfe elementari di quel pasculat . Ma, come Gramsci inse­gna, egli va soprattutto aiutato a innestare quelle linfe in una realtà intellettuale più ampia, aiutato a capire il mondo e la pro­pria stessa arretratezza e dunque a combat­tere questa ultima. Chi vagheggia culture «alternative«, dialettali o altre, favorisce la discriminazione sociale e ostacola il cam­mino di chi vuol emergere dal buio. Il dia­letto non può essere usato regressivamen­te in opposizione alla lingua nazionale. Gramsci auspicava che il «popolo» si riap­propriasse della cultura alta e magari del latino, che aiuta a capire la complessità del mondo e a non lasciarsi fregare. Ma il dia­letto che esprime la sanguigna resistenza quotidiana al potere è l’opposto del folclo­re dialettale ostentato e compiaciuto, ser­vo e strumento del potere e talora crassa espressione di potere. Chi fa il napoletano è il peggior nemico dei napoletani.
Il Corriere della Sera 07.09.09