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“Rodotà: ‘Il pluralismo dell’informazione è in pericolo'”, di Altero Frigerio e Paolo Serventi Longhi

Vi sono molte buone ragioni per partecipare alla manifestazione nazionale per la libertà di informazione indetta dalla federazione della stampa per sabato 3 ottobre e alla quale hanno aderito decine di sindacati, associazioni e movimenti come la Cgil, Articolo 21, l’Arci e le Acli. Così come ci sono i motivi per aderire all’appello scritto per Repubblica da tre giuristi del calibro di Franco Cordero, Stefano Rodotà e Gustavo Zagrebelsky. “Se è vero – esordisce il professor Rodotà che ci riceve nella sua bella casa nel cuore del ghetto ebraico a Roma – che il 69,3 per cento dei cittadini forma la propria opinione in base a quello che vede e ascolta dai tg, è evidente a tutti che chi controlla i telegiornali è in grado di condizionare pesantemente l’opinione pubblica. È stato lo stesso presidente del Consiglio, in Tunisia, a inaugurare un suo canale affermando che la televisione è il mezzo più potente”.

Rassegna Partiamo dal conflitto d’interessi.
Rodotà È una storia molto lunga, non possiamo dimenticare come nasce l’impero televisivo di Berlusconi. Ero in Parlamento all’epoca dei due decreti che in tutta Europa sono noti come i decreti Berlusconi che gli consentirono di espandere liberamente la Fininvest (poi Mediaset). La successiva sentenza della Corte Costituzionale, che avrebbe dovuto obbligare a scorporare Retequattro, fu disattesa. Insomma, c’è una lunga storia di illegalità e di progressivo insediamento sempre più forte del sistema televisivo del premier.

Rassegna Storia vecchia, o c’è qualcosa di nuovo?
Rodotà Naturalmente oggi il fenomeno è più grave. La mia impressione è che il modo in cui si sta intervenendo sulla tv pubblica è molto più aggressivo e intenso anche di quanto non avvenne all’epoca dei precedenti governi Berlusconi. E poi ci sono casi quotidiani che riguardano la Rai, come il rinvio di Ballarò per fare posto a Vespa, le nomine di persone che rispondono personalmente al premier ecc. Non c’è dubbio che in questo momento c’è una situazione molto più grave. Voglio esprimere una preoccupazione forte: aspettiamo tutti con ansia come andrà a finire la vicenda del disegno di legge sulle intercettazioni telefoniche. Norme che impedirebbero qualunque notizia su episodi gravi della vita pubblica italiana, come l’inchiesta sulla scalata alla Bnl, sui furbetti del quartierino. Vicenda sulla quale, con questa legge, non avremmo saputo nulla. Poi il governo minaccia concretamente di eliminare la legge sulla par condicio nelle campagne elettorali. Non certamente la migliore legge del mondo ma che però un certo equilibrio nell’informazione politica lo stabilisce. Quindi, non solo se ci guardiamo indietro o se riflettiamo sul presente, ma se ci interroghiamo sull’immediato futuro la situazione merita una attenzione critica molto forte.

Rassegna Nell’appello lanciato su La Repubblica parlate di tentativo di ridurre al silenzio la libera stampa e del tentativo di anestetizzare l’opinione pubblica. Il bene del pluralismo è davvero in pericolo?
Rodotà Ne sono convinto altrimenti non avrei scritto e sottoscritto quell’appello. Ormai si dice sempre più insistentemente che un sistema è democratico quando i cittadini possono ascoltare il più ampio ventaglio di opinioni diverse tra loro. Noi, invece, abbiamo avuto una forte riduzione del pluralismo e questo è incontestabile. Berlusconi dice che l’opposizione controlla il 90 per cento della stampa, ma basterebbe fare due conti per mostrare come questo non è vero, e come invece il sistema dell’informazione è pesantemente condizionato dalla presenza di Berlusconi, nell’editoria, nella pubblicità, nel cinema e quindi in tutto questo serve a creare la pubblica opinione.

Rassegna Berlusconi dice che l’informazione è governata politicamente ed è usata contro di lui dall’opposizione in alleanza con la magistratura.
Rodotà Anche in questo caso esiste una deformazione molto grave di quello che è il sistema, non solo italiano. Non mi stanco di ricordare che alle figure pubbliche va attribuita una minore aspettativa di privacy e questa è una storia che comincia negli Usa nel 1964, 45 anni fa, quando il New York Times fu portato in giudizio da un signore che ritenne di essere stato diffamato. La Corte Suprema degli Stati Uniti affermò che per le figure pubbliche esiste una capitale distinzione rispetto a un cittadino comune, perché chi gestisce un paese deve essere sottoposto al giudizio di tutti. Berlusconi è quello che più di tutti, In Italia e forse nel mondo occidentale, ha investito sul suo privato. Ricordo il suo libro agiografico, con le foto sue e della sua famiglia, mandato a tutti i cittadini presenti negli elenchi telefonici (allora elenchi pubblici e quindi utilizzabili in ossequio alle norme sulla privacy). Un libro tutto giocato sul privato, in cui lui raccontava chi era il suo camiciaio e da chi comprava le cravatte. Quando, attraverso la personalizzazione della politica, l’uso del privato diventa strumento di ricerca del consenso, il politico non può poi tornare indietro e dire “io vi do soltanto la versione accettabile, edulcorata ed auto rappresentativa della mia vita privata”. A quel punto ha superato una soglia e non può revocare questa sua scelta, non può tornare indietro rivendicando il diritto alla privacy. Se un politico, invece, adotta una linea di assoluta sobrietà e non fa appello a questo tipo di raccolta del consenso, resta certamente una figura pubblica ma potrà sempre chiedere il rispetto di una sfera che non ha mai esibito.

Rassegna Quindi, talvolta, il privato è di interesse pubblico?
Rodotà Il Codice deontologico dell’attività giornalistica, all’articolo 6, dice esplicitamente che i politici hanno sì una sfera di intimità che deve essere rispettata, ma sono riservate solo le informazioni che non hanno alcun rilievo in relazione al ruolo pubblico. In quell’articolo si dice in sostanza: “tu devi avere la massima esposizione, eccezion fatta per i casi in cui la tua vita privata non ha alcun rilievo per l’informazione del pubblico”. Voglio aggiungere che tutta questa ultima vicenda personale del premier comincia fuori dal circuito dei giornali. Comincia nella Fondazione Fare Futuro di Fini, da un articolo di Sofia Venturi, da una serie di domande rivolte da una serie di persone tra cui Veronica Lario. Inoltre, la prima intervista di Patrizia D’Addario è sul Corriere della Sera e poi c’è Porta a Porta. Sarebbe stato inconcepibile che il sistema dell’informazione fosse rimasto silente di fronte a tutto questo insieme di fatti che hanno sollevato questioni politiche, altro che ciarpame. Aggiungo che sono letteralmente sbalordito dal fatto che sia passato sotto silenzio un accertamento incontestabile della magistratura e cioè che per 18 volte il presidente del Consiglio è stato a cena con un signore indagato per traffico di stupefacenti e induzione della prostituzione. Che non ci siano estremi di un reato, come ha sottolineato il procuratore della repubblica di Bari, non risolve il problema. Esiste una cosa che si chiama responsabilità politica che non è strettamente legata alla responsabilità penale, anzi. In Italia abbiamo un paradosso, una parte degli uomini politici attaccano la magistratura dopo di che decidono che il loro destino è nelle mani dei magistrati rivendicando l’assenza di una responsabilità penale. Da noi si è perduta la categoria della responsabilità politica che è uno degli strumenti attraverso i quali una classe dirigente genera fiducia da parte dei cittadini.

Rassegna Quindi sono legittime le domande di Repubblica?
Rodotà Assolutamente sì. Poi possono piacere o meno e si può decidere di non rispondere, e anche questo è assolutamente legittimo. Ma per liberarsi di queste domande non si può usare lo strumento della richiesta di risarcimento del danno. Ogni strumento deve essere misurato al ruolo e alla funzione che si esercita. Un presidente del consiglio che interviene con tale pesantezza, dimostra che la sua richiesta di risarcimento del danno è un pezzo di una strategia molto articolata: ha messo le mani sul sistema dell’informazione, ha determinato l’assetto del sistema televisivo pubblico e privato, va all’attacco di tutti coloro i quali all’interno del sistema dell’informazione non sono riducibili all’ossequio. E non è un caso che dopo l’attacco a Repubblica e all’Unità, ci sia stato quello all’Avvenire. E poi a Ballarò, Report, e in questi giorni ad Annozero

Rassegna Una delle vittime di questo assetto del sistema informativo italiano è proprio il mondo del lavoro. I lavoratori, il sindacato, la società civile organizzata sono marginali, estromessi. Che risposte ci toccano come società civile, come operatori dell’informazione, come pezzi del sindacato che fanno notizia o che tentano di portare il lavoro in primo piano?
Rodotà Il problema del lavoro è al centro, in tutto il mondo, della discussione. Una delle notizie chiave che hanno avuto evidenza in Francia nell’ultimo periodo sono i 23 suicidi in 18 mesi all’interno di France Telecom. In Italia si protesta e qualcuno della maggioranza ha detto spegnete i riflettori. La strategia di rendere invisibile tutto quello che non è gradito, riconduce al modello di comunicazione che è in quel momento gradito a chi detiene il potere di governo. L’inchiesta, la semplice presenza di una serie di notizie è considerata o come un delitto di lesa maestà, o come una falsificazione, o come incitamento al pessimismo, negli ultimi giorni addirittura come delitto di lesa italianità. Credo che proprio le condizioni materiali delle persone, la rilevanza del lavoro rappresenti in questa fase uno dei soggetti sacrificati in modo diretto.

Rassegna Se non si va su un tetto, se non si va su una gru non si fa notizia, gli stessi operai travalicano alcuni elementi di sicurezza individuale pur di ottenere il risultato.
Rodotà Purtroppo è così e anche le proteste cominciano, per qualcuno nel governo, a diventare insopportabili. Dire spegnete i riflettori sui lavoratori vuol dire cancellarli. Non sono soggetti che all’interno del nostro sistema comunicativo debbono avere voce. Persone che trovano un lavoro ad un giovane in difficoltà, come è accaduto a Ballarò nel dibattito seguito a un eccellente servizio giornalistico, dimostrano che c’è un clima nel quale si cercano modi di risolvere i problemi del lavoro che sono fuori dalle logiche civili della solidarietà; siamo oltre il conservatorismo compassionevole di Reagan, siamo alla vecchissima pratica dell’elemosina al bisognoso. Non può essere questa la rappresentazione del lavoro, della disoccupazione. Occorre riscoprire il valore del lavoro definito dall’articolo 1 della Costituzione.

Rassegna Vi è anche il tentativo di porre sotto controllo il web?
Rodotà Vedo con inquietudine anche che stanno emergendo alcune proposte per mettere sotto controllo l’informazione su internet. Questo è un altro punto importantissimo che in realtà prospetta forme di censura sulla rete. Oggi manifestare per la libertà di informazione significa mettere al centro una questione capitale che riguarda i cittadini, non i giornalisti. Nello scrivere l’appello per la Repubblica ci siamo rifatti alla “Dichiarazione Universale dei Diritti dell’uomo” dove si dice che esiste un diritto di cercare, ricevere e diffondere informazioni. Quindi è un diritto del cittadino singolo e del cittadino associato. Nel momento in cui si offrono 500 canali ma poi il fornitore dei contenuti è uno solo, è evidente che si hanno solo apparenze di pluralismo. La sostanza, invece, è che si realizza un controllo autoritario sul sistema dell’informazione. In questo momento tenere fermo questo diritto di tutti di cercare, ricevere e diffondere informazioni è fondamentale. Un sistema democratico non può essere né in balia dei censori, né in balia dell’allegra irresponsabilità di chi mette in un blog qualsiasi cosa. Insomma cresce la responsabilità del sistema informativo ed anche per questo ci sono davvero buonissime ragioni per andare in piazza.

Rassegna.it, 29 settembre 2009