attualità, politica italiana

"Il cortile leghista", di Francesco Merlo

La colpa è del portavoce, come nella più trita tradizione del peggiore politichese. Ma un leghista vigliacco che nasconde il proprio estremismo, uno Zaia pudico che si vergogna del proprio ciarpame anti-italiano, un capo lumbard che si impicca al proprio opportunismo è un inedito. È un salto nell’evoluzione della specie padana. Insomma eravamo abituati al leghista “ce l’ho duro” e qui scopriamo invece che Zaia ha duro solo il portavoce.

L’episodio, comunque sia andata, è un piccolo concentrato di miserie, ma è ricco di significati. Il governatore del Veneto Luca Zaia è andato a inaugurare una scuola elementare nella provincia di Treviso. Ebbene, i garzoni che gli stanno intorno hanno subito ordinato, ovviamente a suo nome e per suo incarico, di sostituire l’inno di Mameli con il “Va’ pensiero”. Ed è inutile ricordare che nessuno in Italia predica retoriche sacralità musicali e che in tutto il mondo gli inni sono solo le spezie dell’identità nazionale, tanto più per gli italiani di oggi che non sono certo malati di patriottismo e di fanfare. E d’altra parte “Va’ pensiero” non è “Faccetta nera” e dunque eseguirlo o ascoltarlo non è un’offesa per nessuno dei nostri simboli nazionali, ma è anzi un godimento dello spirito.
E va bene che Zaia è il più elegante dei leghisti, non ha l’aria zotica e selvaggia che, in misure e con “stili” diversi, caratterizza Bossi, Maroni, Calderoli e Borghezio. Persino nel parlare Zaia è più sobrio, non impreca e non sbuffa, non gli si ricordano inviti a gettare la bandiera nel gabinetto né insulti grevi alle istituzioni di Roma ladrona. Delle due anime della Lega sino a ieri pensavamo che Zaia interpretasse più quella amministrativa che quella secessionista. Però nessuno Zaia, nessun leghista, neppure in versione “moderata”, riuscirà a rendere anti-italiano il coro del Nabucco che fu la colonna sonora del Risorgimento. E non ha nemmeno senso confrontare le note e le parole di un inno nazionale con un qualsiasi capolavoro della lirica. L’idea che il coro del Nabucco sia diventato padano e l’inno di Mameli sia oggi degradato a romano è una volgarità da smascherare perché è sciocco prendere un grande classico della immensa tradizione italiana e contrapporlo a delle facili note che non rappresentano l’eccellenza della nostra musica, ma la nostra identità nazionale.

D’altra parte, chi dirige una scuola, un’orchestra o solo un coro ricordi che, invece di polemizzare a cose finite, si può anche disobbedire a un governatore (meglio ancora, al suo portavoce) e suonare le note previste dal programma e dal galateo istituzionale. Senza iattanza, senza volontà di sfida. Se infatti il presidente della Regione Veneto, nelle sue funzioni di governo, ordina di non suonare l’inno nazionale compie un gesto eversivo in evidente spregio del suo ruolo, si abbandona ad uno sfogo da osteria, commette un’irriverenza grave innanzitutto verso se stesso, e persino si macchia di una cattiva azione contro il proprio paese.

Il primo ad accorgersene è stato infatti lo stesso Zaia che, criticato da La Russa e dai ministri della sua stessa maggioranza, si è pentito, ha negato, si è imbrogliato e ha infine lasciato la responsabilità dell’episodio sulle spalle del portavoce, anche se tutti sanno che la funzione del portavoce è quella di non avere voce, di non parlare mai per sé, di indossare gli abiti di Zaia per far credere al mondo di essere Zaia. Insomma nessuno pensa davvero che un portavoce possa staccarsi dalla voce che lo sostanzia. E da sempre in Italia quella del portavoce intemperante è solo una povera furbata, una piccola viltà da politico ventriloquo. E tuttavia l’inno non cantato per ordine di Zaia rivela anche che proprio quell’oltraggiata marcetta di Mameli, che sino a qualche anno fa nessuno di noi ascoltava con passione, è cresciuta così tanto nel sentimento nazionale che adesso davvero funziona come segno di forza della patria. Al punto che si nega all’inno chi vuol negarsi all’Italia.

Bisogna dare atto all’ex presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi, che con Mameli si imbarcò nella più ambiziosa e faticosa delle sue imprese presidenziali, di avere “lanciato” l’inno proprio contro la fermentazione del localismo tellurico dei vari Zaia, per sedare le rivolte del cortile leghista, per fare attecchire l’amore di patria nel paese dell’assenza di patria. Ebbene, la doppia cafonaggine di Zaia è la prova che Ciampi ce l’ha fatta. L’inno è diventato un inno. Altrimenti Zaia non ne avrebbe chiesto la sostituzione e soprattutto non si sarebbe vergognato di averla chiesta. Altro che “Va’ pensiero”! Quello di Zaia non è un pensiero che va, ma un pensiero che scappa, un cattivo pensiero che si nasconde.

La Repubblica 14.06.10