economia, lavoro

"In Italia nuove prove generali del conflitto capitale e lavoro", di Loretta Napoleoni

La globalizzazione ha prodotto un fenomeno nuovo nel mercato del lavoro, che gli economisti definiscono la corsa dei salari verso il basso. Grazie alla delocalizzazione la forza lavoro a disposizione del capitale occidentale si è raddoppiata. Dall’Est europeo fino al sud est asiatico, l’impresa ha così usufruito di salari decrescenti. Ciò significa che quello minimo percepito, ad esempio in Cina, è diventato un metro di comparazione internazionale. Si chiama «arbitraggio globale del lavoro», lo spostamento della produzione da un paese all’altro in base al costo del lavoro.

La corsa dei salari verso il basso ha messo in ghiacciaia il costo del lavoro in occidente, e spesso per evitare la delocalizzazione i sindacati hanno accettato condizioni monetarie che non coprivano l’aumento del costo della vita. Ciò significa che in termini reali, e cioè al netto dell’inflazione, oggi il salario medio dell’operaio occidentale è più basso che vent’anni fa.

Naturalmente non era questo l’obiettivo che ci si prefiggeva globalizzando. Il fenomeno ha messo in aperta concorrenza tutti i lavoratori senza però creare la rete di connessione tra i sindacati. I lavoratori della Fiat polacchi non hanno alcun collegamento con quelli di Pomigliano, e scoprono il potenziale trasferimento della fabbrica dai giornali. Ci troviamo quindi in presenza di una concorrenza sleale. A detta dei polacchi fino alla scorsa settimana il ministro dell’economia negava che la Fiat avesse intenzione di spostare la produzione in Polonia. Ma non basta. La Fiat ha ottenuto finanziamenti dalla Ue per produrre la Panda in Polonia, accordi che ora dovrà infrangere. È vero che queste cose non succedono da nessun altra parte al mondo, difficile infatti trovare un’impresa che per riportare la produzione in patria rompa accordi internazionali ed imponga ai lavoratori di abrogare la Costituzione per accettare condizioni di lavoro «a la cinese».

Molti si domanderanno se dietro questa strategia non ci sia un fine politico che nulla abbia a che vedere con la globalizzazione. In termini economici viene spontaneo domandarsi che senso ha trasferirsi da una fabbrica che funziona bene a Pomigliano. Forse dietro questo braccio di ferro ci sono problemi strutturali, di imprese che da decenni sopravvivono solo grazie all’abbattimento dei costi di produzione, problemi oggi pressanti. La corsa dei salari verso il basso sta infatti per raggiungere il traguardo, già in Cina le lotte operaie costringono l’impresa a farli gravitare, è solo questione di tempo ma anche nel resto del mondo succederà lo stesso. A quel punto sarà difficile per le imprese contenere le richieste di aumento dei salari reali e sociali.

È dunque possibile che in Italia si stiano svolgendo le prove generali di un braccio di ferro tra capitale e lavoro che potrebbe vedere riaccendersi le lotte operaie in occidente dovunque esista un’industria che produce solo grazie a condizioni particolari. Ed è anche probabile che ciò succeda perché sullo fondo c’è una crisi del debito sovrano, che equivale a dire che lo stato si trova nell’impossibilità di iniettare,come sempre, in queste industrie contante sotto forma di sovvenzioni.

Se questo è vero allora il problema è strutturale e non ha nulla a che vedere con la globalizzazione. In Germania o in Giappone operai e sindacati dell’auto non vengono messi alle strette come da noi, la Merkel non chiede l’abrogazione degli articoli costituzionali sul lavoro. Né in Germania e né in Giappone ci si lamenta della scarsa produttivita della manodopera, ma ricordiamolo in questi paesi le assunzioni non avvengono su sollecitazione politica. Tutti gli operai scrutatori di Pomigliano che durante le elezioni hanno preso il permesso hanno presentato regolare certificato con firma di politici. Domandiamolo a loro se erano veramente nei seggi non al sindacato. Se questa analisi è corretta allora alla radice del braccio di ferro non c’è la produttività ma politica, ed impresa e sindacato faranno bene a tenerlo presente.

L’Unità 21.06.10

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“Pomigliano non è davvero la Fiat del 1980”, di Bruno Ugolini

Il 2010 di Pomigliano come il 1980 di Torino? Un paragone infondato. Lo ha spiegato, tra gli altri, uno studioso, nonché dirigente della Cisl come Bruno Manghi. Ho un ricordo acuto di quella vicenda avendo vissuto, in quell’epoca, a Torino, scrivendo per questo giornale, 35 giorni e 35 notti. Era una lotta unitaria contro oltre ventimila licenziamenti,non per una ripresa produttiva condizionata dalla menomazione di leggi e diritti.E godeva dell’appoggio di grandi partiti di massa. Davanti ai cancelli della fabbrica comparve a un certo punto Enrico Berlinguer. Un delegato della Fim-Cisl chiese che cosa avrebbe fatto il Pci in caso di occupazione della fabbrica. Berlinguer rispose che non avrebbe potuto non essere a fianco degli operai. L’affermazione venne travolta dalle polemiche. Non ricordo però, in quei giorni, una lotta politica pubblica e aperta da parte di esponenti del Pci contro la battaglia sindacale in corso. Ricordo solo Bruno Trentin che davanti ai picchetti operai cercava di far capire che certe forme di lotta potevano portare all’isolamento e alla sconfitta. Èlo stesso Trentin rievocato in questi giorni a proposito dell’accordo del 1992 che aveva sepolto la scala mobile. Tutti a scrivere oggi che Epifani avrebbe dovuto imitare per Pomigliano lo stesso senso di responsabilità di Trentin. Senza ricordare che all’epoca Epifani era in prima fila con la corrente socialista capitanata da Ottaviano Del Turco per convincere la Cgil riottosa circa la necessità di firmare l’accordo. E che Trentin aveva firmato con collera e dolore, per impedire le dimissioni minacciate da Giuliano Amato e il tracollo economico, la rottura sindacale. Pur denunciando il fatto che quell’intesa cancellava la scala mobile e bloccava la contrattazione aziendale. Per dare, subito dopo, lui stesso le dimissioni, denunciando il “male oscuro” delle correnti sindacali parapolitiche nocive per la democrazia sindacale. Un anno dopo, a dimissioni rientrate, riusciva a conquistare col governo Ciampi un nuovo accordo che considerava una rivalsa sul 1992. Ora comunque è tempo di guardar più al futuro che al passato. L’accordo di Pomigliano non può essere considerato il nuovo vangelo delle regole del gioco nel mondo del lavoro. Appare lucida l’osservazione di Epifani circa il fatto che nella fabbrica campana bisognerà essere presenti e partecipi nei due anni di preparazione alla svolta produttiva. Un tempo da impiegare non nei panni degli spettatori passivi e nemmeno dei sabotatori ma con l’obiettivo di cambiare tutto ciò che addirittura si scontra con leggi vigenti e con la stessa Costituzione. Marchionne stesso forse potrà capire che con i regimi da caserma non si crea nulla di buono.

L’Unità 21.06.10