pari opportunità | diritti

"Più immigrati più crimine? dipende dalla politica", di Francesco Fasani

I risultati di una indagine sul Regno Unito mostrano che la presenza di immigrati non necessariamente si trasforma in un aumento dei tassi di criminalità. Anzi. Se agli stranieri viene lasciata la libertà di entrare e uscire dal paese ospitante, lavorare in regola e scegliere i mercati del lavoro locali in cui inserirsi, non si registrano effetti negativi dal punto di vista della criminalità. Quando la politica migratoria preclude loro queste possibilità, possono finire per scegliere attività criminose per far fronte alle necessità di sostentamento.
Il rapporto tra immigrazione e criminalità è uno dei temi caldi e ricorrenti del dibattito politico italiano. L’evidenza empirica di cui disponiamo per il caso italiano non conferma l’esistenza di una chiara relazione causale tra presenza di immigrati nell’area e tassi di criminalità. (1) Eppure, per molti politici e commentatori la relazione è scontata. (2).

MIGRANTI NEL REGNO UNITO

Proviamo ad abbandonare l’idea che gli immigrati abbiano, per qualche misterioso motivo, una maggiore propensione dei nativi a commettere crimini. Come economisti, assumiamo invece che gli immigrati rispondano agli incentivi nelle loro scelte di partecipazione ad attività criminali piuttosto che ad attività legali. (3) Esattamente come farebbe qualsiasi cittadino dei paesi ospitanti. Se gli incentivi sono importanti, allora la politica migratoria – in quanto capace di modificarli – diviene cruciale nell’analisi della relazione tra immigrazione e criminalità. (4)
In una nostra recente analisi studiamo due diverse ondate migratorie che hanno interessato la Gran Bretagna nel corso degli ultimi quindici anni. (5) La prima composta da richiedenti asilo e la seconda dai cittadini dei nuovi Stati membri (Nsm) dell’Unione Europea dopo l’allargamento del 2004.
Un consistente flusso di richiedenti asilo è arrivato nel Regno Unito a fine anni Novanta e nei primi anni Duemila, con una media di circa 70mila domande all’anno tra il 1997 e il 2002. (6) I cittadini dei nuovi stati membri, invece, hanno fatto registrare a partire dal 2004 una media di circa 150-200mila ingressi all’anno, e nel giro di quattro anni sono arrivati a rappresentare circa l’1,3 per cento della forza lavoro inglese, partendo da una percentuale prossima allo zero. I due gruppi sono chiaramente diversi per il diverso processo di selezione che li ha condotti nel Regno Unito. Le scelte di politica migratoria di questo paese, però, hanno introdotto ulteriori elementi di differenza. Mentre i cittadini dei Nsm hanno goduto di immediata libertà di circolazione e di accesso al mercato del lavoro britannico, i richiedenti asilo sono stati soggetti a maggiori restrizioni. (7) Innanzitutto, non è permesso loro lavorare (regolarmente) nei primi sei (successivamente estesi a dodici) mesi dalla presentazione della domanda di asilo. Durante i mesi di attesa, il governo inglese fornisce loro un sussidio, che è pari a circa la metà di quello di disoccupazione. Inoltre, i richiedenti asilo hanno diritto a ricevere un alloggio gratuito dal governo, ma, nel caso vogliano esercitare questo diritto, non possono scegliere la località di residenza. Dal 1999, con l’Immigration and Asylum Act, il governo britannico ha introdotto una politica di “dispersione” dei richiedenti asilo verso aree del Regno Unito non abitualmente interessate dai flussi migratori. Dal punto di vista dell’analisi empirica, questa politica offre un interessante “esperimento naturale” che permette di identificare l’effetto causale della presenza di immigrati sui tassi di criminalità nell’area. La stima di questo effetto, infatti, è generalmente limitata dal fatto che gli immigrati possono scegliere dove risiedere. Ad esempio, se si collocano in aree in espansione economica, si potrebbe osservare che un più elevato numero di immigrati è associato a minori tassi di criminalità. Ma la riduzione nel crimine sarebbe probabilmente da attribuirsi alla crescita economica dell’area, piuttosto che a un effetto “benefico” degli immigrati. L’opposto sarebbe vero se, invece, gli immigrati scegliessero aree in declino perché, ad esempio, i prezzi delle case sono più accessibili.
I nostri risultati mostrano chiaramente che per nessuno dei due flussi migratori considerati si è registrato un aumento dei crimini violenti. Per gli immigrati dei Nsm, non si osserva alcun effetto neppure sui crimini contro la proprietà, anche controllando per i problemi introdotti dalla selezione degli stranieri in particolari aree di residenza. Un aumento dei crimini con “motivazione economica”, invece, si è verificato nelle aree dove sono stati “dispersi” i richiedenti asilo. L’effetto si trova soltanto quando si considerano quelli di sesso maschile (circa il 55 per cento del totale), nonostante l’allocazione nelle diverse aree sia omogenea per uomini e donne. Nessun effetto si osserva per i richiedenti asilo che rinunciano all’alloggio gratuito e possono quindi scegliere dove risiedere. La dimensione dell’effetto è contenuta: l’aumento di un punto percentuale dei richiedenti asilo “dispersi” causerebbe un aumento dello 0,7 per cento dei crimini contro la proprietà. Dato che i richiedenti asilo rappresentavano in media lo 0,1 per cento della popolazione, alla loro presenza può essere ricondotto un aumento dei crimini contro la proprietà che rappresenta circa il 2 per cento del loro valore medio nel periodo considerato.

QUANDO INTERVIENE LA POLITICA

I risultati per il Regno Unito mostrano che la presenza di immigrati non necessariamente risulta in aumento dei tassi di criminalità. Anzi. Se agli immigrati viene lasciata la libertà di entrare e uscire dal paese ospitante, di lavorare in regola e di utilizzare le proprie reti di relazioni per cercare lavoro e scegliere i mercati del lavoro locali in cui inserirsi (immigrati dai Nsm), non si registrano effetti negativi dal punto di vista della criminalità. Quando, invece, la politica migratoria interviene e preclude loro queste possibilità (richiedenti asilo “dispersi”), gli immigrati possono finire per scegliere attività criminose per far fronte alle loro necessità di sostentamento. Nel caso del Regno Unito, le restrizioni alla possibiltà di lavorare e la politica di “dispersione” sono state concepite con l’obbiettivo di rendere il paese meno attraente per i potenziali profughi che fossero arrivati in futuro. L’impatto sul crimine è chiaramente un effetto collaterale di questa politica. È una lezione importante anche per l’Italia. Se “lasciati liberi di lavorare” – come direbbe il nostro presidente del Consiglio – gli immigrati sono una grande risorsa, quando invece si vuole rendere la loro vità insensatamente difficile (con restrizioni all’ingresso, alla durata della loro permanenza, al rinnovo dei permessi di soggiorno, eccetera) si corre il rischio di convincere almeno parte di loro, che l’opzione criminale può essere più allettante di un inserimento lavorativo regolare reso troppo complicato dalla legislazione vigente.

(1)Si veda l’analisi di Bianchi M., Buonanno P. & Pinotti P., 2008. “Do immigrants cause crime?,” Pse Working Papers 2008-05, Pse;
(2)Si vedano, ad esempio, le recenti dichiarazioni a riguardo del sindaco di Milano, Letizia Moratti:
(3)Si vedano: Becker, G. (1968) “Crime and Punishment: An Economic Approach”, Journal of Political Economy, 76, 175-209; Ehrlich, I. (1973) “Participation in Illegitimate Activities: A Theoretical and Empirical Investigation”, Journal of Political Economy, 81, 521-63.
(4)Evidenza a supporto dell’importanza del ruolo svolto dalla politica migratoria viene dall’analisi di Mastrobuoni G. e Pinotti P. (“Migration Restrictions and Criminal Behavior: Evidence from a Natural Experiment “ (2010), nella quale si mostra come l’ottenimento dello status legale riduca sensibilmente il tasso di recidiva degli immigrati interessati dal provvedimento.
(5)Bell B., Machin S. e Fasani F. (2010) “Crime and Immigration: Evidence from Large Immigrant Waves in the UK”, CReAM DP 12/10:
(6)Nello stesso periodo l’Italia riceveva una media di 15mila domande all’anno.
(7)Il Regno Unito, insieme a Irlanda e Svezia, decise di aprire immediatamente il proprio mercato del lavoro ai cittadini dei Nsm, senza adottare alcun periodo di transizione. L’unica limitazione è consistita nell’obbligo di dover segnalare la propria presenza iscrivendosi a un apposito registro (Working Registration Scheme).

www.lavoce.info