partito democratico, politica italiana

"Rilanciamo la sfida", di Giuseppe Civati

La crisi strutturale della destra italiana, le contraddizioni della Lega, i distinguo che non tengono più, la doppietta Scajola-Brancher, i “grandi eventi” che hanno riguardato la figura di Bertolaso (pupillo del premier e suo erede mancato), la Finanziaria che fa male, non piace a nessuno e crea problemi anche ai suoi estensori, le incertezze del federalismo di cui si sa ancora pochissimo (se non che sarà difficilissimo anche solo da immaginare), il dissidio ormai plateale con Fini e con larghi settori della maggioranza: tutto questo fa pensare che siamo entrati in una nuova fase politica.
Il buon senso e anche la scaramanzia ci portano a diffidare delle soluzioni troppo facili e degli scenari fantascientifici di cui abbiamo letto in queste ore. Berlusconi resisterà, come ha sempre fatto, e proverà a rilanciare, magari appellandosi direttamente al popolo sovrano (in questo caso, il sovrano sarebbe lui stesso, come sempre). È un momento grave, insomma, e molto delicato, ma è anche un passaggio di straordinaria importanza per il centrosinistra: una grande opportunità per chi pensa all’Italia in modo diverso, per il Pd e per le forze democratiche che finalmente possono ripartire, insieme. Ora devono prendere parola, farsi sentire, avvicinarsi agli elettori sconcertati da questo spettacolo, offrendo di sé e del Paese un’immagine che non sia nemmeno lontana parente di quella che abbiamo visto negli ultimi mesi. È ora di abbandonare le timidezze e di lanciare una sfida senza quartiere (e in ogni quartiere) a questa destra impresentabile, che ha fallito proprio sul suo presunto terreno, quello «del fare», della concretezza e dei risultati che non arrivano.
I simboli del berlusconismo si sono sgretolati, in Abruzzo come a Napoli, nella sicurezza negata dalle intercettazioni, nella difesa del territorio, abbandonato senza risorse e senza progetti. È un momento decisivo, anche e soprattutto per il Pd. Perché ora il Pd può dimostrare agli italiani, ai suoi elettori e militanti quanto vale, quanta passione può mettere per tirare fuori l’Italia dai guai, per cambiare la politica, per ridare dignità al nostro Paese. Può finalmente aprire un dialogo con chi è rimasto tagliato fuori dalla crisi – a cominciare dai giovani italiani, per un terzo senza lavoro e per il resto coperti solo parzialmente da garanzie e diritti. Può parlare di economia guardando oltre, cercando di delineare percorsi di qualità che facciano crescere il nostro sistema produttivo.
Un Paese da unire, come vuole il 150°, con la politica, però, perché la famosa «identità» si costruisce così. Un Paese che faccia vivere il richiamo costituzionale, come ha fatto quel ragazzo dall’altra parte dell’oceano, proprio perché vuole essere all’altezza di una missione che ha largamente perso di vista (e la Costituzione, si sa, vive nel futuro, non nel passato a cui qualcuno vorrebbe confinarla). Un Paese che investe, che scommette sul domani, che non si spaventa delle proprie miserie, perché finalmente intende affrontarle, da Nord a Sud, all’insegna della lealtà e della responsabilità.
Due parole che si sono eclissate in questi anni di predominio della destra. Due parole dalle quali ripartire, e che insieme ne fanno una terza: rispetto. Il rispetto per noi stessi e per le persone che ci candidiamo a rappresentare. Di nuovo. In una sfida moderna, dal sapore antico.

da l’Unità del 6 luglio 2010

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“Pd, il primo colpo andato a segno”, di Mariantonietta Colimberti
Il “ministro del nulla” getta la spugna anche per evitare la mozione di sfiducia dei dem.
Questa volta il Pd ha battuto il colpo, anzi, ne ha battuti due. E ieri ha raccolto il primo risultato, le dimissioni di Aldo Brancher, annunciate proprio in quel tribunale di Milano per sfuggire al quale aveva giurato al Quirinale lo scorso 18 giugno. Proprio dal presidente della repubblica era arrivato il secco e severo intervento sulla insussistenza del “legittimo impedimento” invocato dagli avvocati del ministro a meno di una settimana dalla nomina.
Se non si fosse deciso – o se non avesse acconsentito – al passo indietro, probabilmente Brancher sarebbe stato sfiduciato giovedì dalla camera o, comunque, il risultato del voto segreto sarebbe stato devastante per la maggioranza ancor più della resa di ieri.
Giustamente il Pd rivendica il risultato, ottenuto questa volta insieme all’Idv e senza l’Udc, e raggiunto prima di andare alla conta in parlamento. «La vicenda ministeriale di Brancher nasce e muore nelle aule giudiziarie – ha detto la presidente dell’assemblea nazionale Rosy Bindi – le sue dimissioni sono un atto dovuto, ma annunciarle in un tribunale anziché in parlamento conferma tutta la strumentalità della sua nomina: Brancher era solo il ministro del legittimo impedimento».
Dunque, l’iniziativa comune di Pd e Idv ha centrato l’obiettivo. Il vicesegretario democratico Enrico Letta parla di «lezione per l’opposizione. È stato ancora una volta dimostrato che la determinazione e l’unità di intenti delle opposizioni consentono di mettere alle corde il governo. È una lezione di cui far tesoro». Eppure nell’immediato futuro i due partiti che in questa occasione hanno marciato insieme potrebbero tornare a dividersi. Molto dipenderà da quel che accadrà nei prossimi giorni nel campo avversario.
Il secondo colpo battuto dal Pd, infatti, domenica scorsa attraverso lo stesso Letta ai microfoni di Sky – «se la maggioranza non è in grado di governare, la palla passi al capo dello stato, che con la sua saggezza saprà trovare la soluzione migliore» – sembra più adatto ad agganciare, nell’eventualità di un precipitare della crisi politica, l’Udc di Pierferdinando Casini che a bissare l’intesa con Antonio Di Pietro. Il leader dell’Idv, infatti, evocava ieri lo scenario di elezioni anticipate, escludendo qualsiasi ipotesi di governo tecnico o di larghe intese, che invece proprio il capo dell’Udc, due giorni fa su Repubblica, aveva considerato tra le eventualità possibili. E infatti Lorenzo Cesa ieri non ha perso l’occasione per attaccare l’Idv: «In questo paese c’è un partito del “tanto peggio tanto meglio” che si augura nuovi disastri e non intende operare per risolvere i problemi. Per quanto ci riguarda non è una novità, ma inviteremmo anche il Pd a guardarsi da certi alleati che pensano a tutto fuorché al bene dell’Italia».
In area di “prossimità” al Pd ha fatto sentire la sua voce critica Emma Bonino (è stata eletta in senato nelle liste democratiche), secondo la quale «l’opposizione deve incalzare il governo sulle proprie responsabilità e non fare appelli al Quirinale del tutto fuori luogo». Per la verità non è del tutto chiaro in cosa dovrebbe consistere l’«incalzare » auspicato dalla Bonino, che ritiene «deleterio» anche «il ricorso alle urne ogni due anni».
Comunque, nelle ultime settimane il Pd ha fatto registrare una ripresa di iniziativa politica che ha suscitato apprezzamento anche a sinistra. Il partito è riuscito a stare al passo con gli eventi e a volte, come nel caso di Brancher, a prevenirli. La partita, quale che sia, è però ancora tutta da giocare e gli avvenimenti dei prossimi giorni potrebbero essere decisivi. Il segretario Pier Luigi Bersani ritiene che, se il centrodestra dovesse prendere atto che il paese non può andare avanti così, il primo passo sarà rimettersi alle riflessioni del Quirinale. A quel punto, il Pd «farà le sue valutazioni».

da www.europaquotidiano.it

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“Pd, a quando un cambio di passo?”, di Mario Rodriguez

Sorprende in queste settimane il fatto che di fronte ad un indebolimento costante della figura del presidente del consiglio, di fronte ad una sequenza di inciampi e ruzzoloni, ddl intercettazioni in primis, non corrisponda il rafforzamento dell’opposizione. L’emersione di un soggetto, persona o partito, verso il quale rivolgersi nella speranza che possa fare qualcosa di meglio o di più.
Vedremo se il tonfo di Brancher aprirà avrà qualche effetto, ma nel profondo Nord la sfiducia in Berlusconi fa crescere solo l’appeal di Bossi e della “sua” Lega. Bisognerebbe almeno prenderne atto. Visto che individuare i problemi è il primo passo per risolverli. Invece non si colgono cambi di passo e sembra che si vada avanti sviluppando decisioni figlie di ragionamenti maturati in altri contesti.
Perché sta succedendo questo? Perché all’annunciata volontà del Pd di ripartire dalla vita della gente comune ha corrisposto un progressivo impantanarsi nelle querelle imposte dai media, dalla loro agenda, rimanendo attori di uno spettacolo di cui la regia è saldamente in mano ad altri. Il fatto è che l’opposizione tutta (le varie componenti del Pd ma Idv e Sel compresi, per intenderci) non sembra in grado di offrire una lettura della società italiana che permetta di interpretarne paure e speranze. Non basta qualche frase in dialetto. Non fa nemmeno presa la “lenzuolata” di contro proposte alla Finanziaria che fa rimanere l’opposizione più sul terreno della laundry list che della costruzione di metafore convincenti (per dirla con Lakoff).
Manca la capacità di evocare una cornice che generi fiducia. Quello che si dice è contraddittorio, complicato, spesso carico di distinguo, di allusioni per addetti ai lavori. A volte solo una stanca elencazione di problemi denunciati da anni e mai affrontati: si dovrebbe fare, bisognerebbe essere, eccetera. Nulla a che fare con chi, in un momento di difficoltà, proponendosi come un riferimento affidabile, avanza proposte che fanno vivere esperienze non previste e prevedibili costringendo a vedere le cose in una luce diversa rispetto al passato.
Il ghe pensi mi del Berlusconi triumphans, per intenderci (ma è lo stesso meccanismo di tutte le leadership da Prodi dell’euro e dell’Ulivo, a Bossi del federalismo, Veltroni del Lingotto fino alla Bonino e Vendola delle regionali).
Ed ecco il paradosso attuale. Da un lato ci vorrebbe una capacità di intervento immediato nella crisi (con linguaggi che materializzino nell’esperienza delle persone proposte credibili). Ma per riuscirci bisognerebbe avere anche una più adeguata capacità di analisi e di rappresentazione della realtà. Questo chiede tempo. E soprattutto il coraggio sia di attribuire priorità allo studio, alla analisi, all’approfondimento sia di abbandonare vecchi riferimenti nostalgici. Invece questi problemi sono ritenuti astratti, lontani dalle persone, autoreferenziali. Si spende molto di più per “dire” che per “capire” o per “condividere”. Forse si teme di sollevare più confusione di quanta se ne riesca a risolvere. Ma di lì bisognerà passare.
Nel Pd se ne rendono conto coloro che stanno animando fondazioni, scuole e forum. Troppo facile interpretare le loro mosse solo come smania di protagonismo. Colgono un’esigenza reale. Ma ne risulta una spinta centrifuga perché non diventa parte costitutiva della pratica politica generalizzata, di un modo d’esserci nella società. Gli eventi sono pensati e realizzati più per la loro spendibilità mediatica che come momenti necessari a costruire visioni comuni capaci di sostenere comportamenti riconoscibili. Il distacco tra affermazioni e comportamenti cresce. Sono passerelle effimere. Conta chi parla non cosa si dice. È importante che ci siano fedeli non evangelisti (nella accezione usata anche nel mondo della consulenza aziendale). I sostenitori sono ormai pubblico, audience. Si continuano a mettere toppe, spesso fatte di tessuti vecchi. Mentre bisognerebbe avere il coraggio di riconoscere che la cultura riformista, battuta in molti campi perché incapace di offrire ricette funzionanti, deve fare i conti proprio con quegli approcci “altri” che ne hanno evidenziato i limiti, che la hanno battuta sul campo (il confronto elettorale nelle democrazie mediatizzate).
È necessario, quindi, ripartire dallo studio della realtà scegliendo sistematicamente lo stimolo della falsificazione delle teorie, piuttosto che la definizione dell’ortodossia e l’allontanamento degli altri per fare chiarezza. Nel Pd curiosità e voglia di aprirsi e mettersi in discussione si sono spente. Hanno lasciato il campo, da un lato a un riduzionismo praticone tutto concentrato sull’attività delle assemblee (parlamento in testa, ma non solo) e, dall’altro, a una volontà di (ri) qualificarsi su concetti a forte carica simbolica rivolti più al “come eravamo” che al presente. La difficoltà del muoversi in campo aperto spinge verso la costruzione di casematte.
Quando si sente parlare – nei modi in cui se ne sente parlare – di «centralità del lavoro», di «creazione di una nuova cultura socialdemocratica», la cornice evocata è quella del conflitto salario-capitale-padrone operaio. Un frame da novecento, tutto immerso nella temperie socialdemocratica. Niente a che fare con una società che non attribuisce o riconosce più al sindacato dei lavoratori dipendenti un ruolo di rappresentanza di interessi generali. Nulla a che fare con una società che vede nel tempo extra lavoro il terreno della qualificazione della propria esistenza. Nulla a che fare con il lavoro come terreno di realizzazione delle persone in una società “liquida”. E questo solo per una superficiale allusione ai problemi.

da www.europaquotidiano.it