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"A settembre l'università esisterà ancora?", di Francesco Vaccarino

Mentre gli studenti medi si accingono a terminare gli esami di maturità e iniziano a pensare al corso di laurea cui iscriversi, stanno accadendo eventi piuttosto singolari nella maggioranza degli atenei italiani. Attività e fatti sino ad oggi ignorati dai media e vicini al mondo tv non più della sterochimica.
La stampa straniera sembra invece interessata alla strana epidemia che colpisce la nostra educazione superiore. Leggendo «Nature», si può ad esempio apprendere da Alison Abbot (http://www.nature.com/news/2010/300610/full/466016b.html) che il prossimo anno accademico avrà serie difficoltà ad aprirsi nella maggioranza delle università italiane.
I dati raccolti finora dalla «Rete 29 aprile», la principale anima del movimento in atto, sono incredibili: su 66 università, si hanno dati relativi a 38, ovvero 263 Facoltà e il risultato è che 8733 ricercatori, pari al 62% del campione, si sono dichiarati indisponibili alla didattica non obbligatoria per legge. In aggiunta ci sono 2 mila professori che hanno aderito all’iniziativa del matematico Claudio Procesi, promettendo di dimettersi dai loro incarichi a partire da ottobre, se le cose non cambieranno.
Ciò ha comportato, come prima conseguenza, numerose dichiarazioni dei consigli di Facoltà, ovvero dei Senati Accademici, di impossibilità a formulare l’offerta formativa per il prossimo anno.
Questo significherà il blocco delle iscrizioni degli studenti. Una lista non esaustiva comprende l’Università di Pavia, di Cagliari, la Facoltà di Scienze di Torino, Architettura I del Politecnico di Torino e via discorrendo. Rimandiamo per i dettagli ai siti www.rete29aprile.it e w3.disg.uniroma1.it/unira/.
Dall’esterno sembra difficile capire cosa stia succedendo. Che cosa vogliono questi privilegiati? Fanno ricerca, non hanno un orario di lavoro, si dedicano a quello che gli piace, quando non sono dei raccomandati. Insomma: che avranno mai da protestare, quando ci sono persone che perdono il posto con la crisi?
Declinare interamente la questione costringerebbe ad abusare della pazienza dei lettori. Limitiamoci quindi ad alcune considerazioni. Una è di carattere storico: la figura del ricercatore è spuria. Creata una trentina di anni fa come evoluzione degli assistenti, è votata e assunta per fare ricerca. La sua partecipazione all’attività didattica è per legge obbligatoria solo per le attività complementari, laboratori o esercitazioni. Con il passare del tempo, però, il sistema ha tramutato i ricercatori in docenti de facto, affidando loro una rilevante parte della didattica.
Questo stato delle cose ha retto per due motivi: la voglia di insegnare e la promessa di uno sviluppo professionale. Chiunque abbia avuto il privilegio di insegnare sa che è un’attività meravigliosa. Ecco quindi che insegnare è un desiderio autentico nella più parte di noi e rinunciarvi sarà un sacrificio. Il secondo aspetto era la promessa: l’insegnamento veniva vissuto come un’anticipazione dell’agognato posto da professore.
Cosa ha rotto l’equilibrio? La distruzione di ogni prospettiva professionale, unita al taglio dei fondi per le università, che sta portando al loro collasso. Si è sviluppata una successione catastrofica di eventi: la ricerca e l’università erano già mal finanziate e con una struttura di spesa sbilanciata sui costi del personale. Va detto, per inciso, che nella ricerca il capitale umano e non le attrezzature sono il valore, per cui tale sbilancio appare meno insensato in seconda lettura. Dal 2008 in poi sono stati fatti tali e tanti tagli di finanziamento che le università porteranno i libri in tribunale per il 2011.
I tagli non solo hanno colpito chi nell’università lavora e studia, ma hanno azzerato la possibilità di ingresso dei giovani. Mentre Obama, Merkel e Sarkozy incrementano gli investimenti in ricerca e formazione avanzata, nel Belpaese, al problema di essere più competitivi sul mercato globale si risponde tagliando i fondi per la ricerca, precarizzando il lavoro del ricercatore, riducendo il già basso stipendio dei nuovi ricercatori del 32%, ma lasciando invariato il numero di auto blu.
Come risultato i migliori e più giovani di noi lasceranno l’Italia, contribuendo all’invecchiamento di quella che è già l’università con l’eta media dei docenti più alta al mondo. I servizi offerti agli studenti scadranno e con loro la qualità della formazione, minando di fatto il futuro del sistema Italia. E’ contro questa prospettiva che i ricercatori, con la morte nel cuore, non insegneranno più.

La Stampa del 7 luglio 2010