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"Il premier cerca l'exit strategy", di Marcello Sorgi

Anche se molti, nell’entourage del presidente del Consiglio, assicurano che fosse stata attentamente preparata, fin dall’accorta scelta degli ospiti che dovevano presenziarvi e dalla scelta della casa che doveva ospitarla, l’idea che la rifondazione della Dc, vale a dire il partito-Stato della Prima Repubblica, potesse ripartire nel modo in cui Berlusconi ci ha provato giovedì sera, nella famosa cena a casa di Bruno Vespa, suona a dir poco approssimativa. E non sorprendono, va detto subito, le reazioni sconcertate con cui esplicitamente hanno preso le distanze sia il leader dell’Udc Casini, partner presunto e obbligato dell’operazione, sia il ministro dell’Interno leghista Roberto Maroni, che lo stesso Bossi.

Per quanto logora, acciaccata e sopravvissuta a se stessa oltre ogni limite fino al momento della sua scomparsa, la Democrazia cristiana – il partitone cardine (oltre che guida, per una buona metà) di tutti i governi di più di quarant’anni della nostra storia -, era una cosa seria.

Alle sue spalle non c’era solo l’appoggio, peraltro intermittente e mai univoco, della Chiesa e delle Gerarchie vaticane, ma la variegata realtà del cattolicesimo italiano impegnato in politica, oggi in gran parte a disagio nella nuova democrazia bipolare e disperso in una lunga diaspora.

Che una complessa architettura come quella (che per semplificare faceva dire ai cronisti politici che nella Dc potevano convivere dai fascisti ai brigatisti) potesse rinascere in una cena romana, grazie alla disponibilità di uno dei più famosi giornalisti italiani e alla presenza di cardinali, banchieri, manager e una ristretta rappresentanza della classe dirigente italiana, francamente è un po’ troppo. Perfino Berlusconi, che spesso si lascia andare alla faciloneria, e che ha preso male le reazioni di Casini e della Lega, siamo sicuri che avesse ambizioni più forti. Anche lo stupore di alcuni degli ospiti, manifestato privatamente all’uscita dalla casa di via Gregoriana, era più che giustificato. Infatti non è proprio detto che per curare i mali italiani la medicina sia una nuova Dc.

Non è solo questione di procedure, che il Cavaliere si ostina a considerare superflue e invece fanno parte della liturgia repubblicana, come una crisi e un programma da rinegoziare, che diverrebbero indispensabili se il governo dovesse rinascere con una nuova maggioranza. È tutta la concezione berlusconiana della velocità e della semplificazione, per non dire dell’amicizia, che consentono di risolvere tutto, e al contrario sono messe a dura prova da una situazione divenuta, giorno dopo giorno, più difficile.

Davanti a sé Berlusconi ha il problema di un’«exit strategy» da una congiuntura di cui non porta, certo, tutte le colpe, ma che richiede da parte sua una piena assunzione di responsabilità, per capire veramente ciò che il governo può fare nella seconda parte della legislatura e cosa non può. E soprattutto, con chi può e vuole farlo. Senza chiamarlo necessariamente «governo d’emergenza» (un concetto che il Cavaliere rifiuta come tutti quelli che possono allarmare i suoi elettori), Berlusconi ha il dovere di mettere a punto un piano per una situazione che tutti, in Europa e in buona parte del mondo, considerano d’emergenza; di dire francamente quale parte del programma con cui ha vinto le elezioni nel 2008 considera ancora realistica e a quale è disposto a rinunciare; cosa pensa davvero di poter fare, uno, due tre punti, e con quali scadenze.

È sulla base di questo metodo, di questi contenuti assenti finora, che il premier potrebbe avviare una seria trattativa all’interno della sua attuale maggioranza, a cominciare dalla Lega, comprensibilmente nervosa per l’immobilismo del governo sulle riforme, e anche all’esterno, con partiti, come quello di Casini, ma non solo, che su alcuni punti potrebbero convergere, o dichiarare la loro disponibilità a gestire il nuovo programma fino al 2013. Un processo del genere, oltre a mettere in chiaro, di fronte agli elettori, chi è disposto a farsi carico della crisi, gli consentirebbe pure di riorganizzare il suo partito con la severità che richiedono tutti gli ultimi avvenimenti che lo hanno riguardato. Senza farsi imporre nulla, né ghigliottine né azzeramenti del gruppo dirigente, ma scegliendo autonomamente sulla base delle proprie convinzioni, del merito, delle capacità e di criteri oggettivi, come quello che se uno è investito da uno scandalo, per un po’ si può aspettare e veder di fare chiarezza, ma a un certo punto è legittimo chiedergli di farsi da parte. Specie se gli scandali non sono più uno, ma due o tre.

Tutto questo il presidente del Consiglio lo sa benissimo. Da tre mesi, cioè dalla sua ultima vittoria elettorale alle regionali, Berlusconi annuncia un giorno sì e l’altro pure novità e cambiamenti che il giorno dopo o due giorni dopo è costretto a rimangiarsi. Non fosse che per le urgenze e le emergenze che gli piovono addosso, dall’economia ai delicati appuntamenti internazionali, l’immagine che lui stesso avvalora, quando si sfoga in pubblico, è quella di un premier impotente, bloccato da veti paralleli e dall’ostruzionismo dei suoi stessi alleati. Siccome è perfettamente in grado – e lo ha dimostrato – di capovolgere un quadro del genere, a questo punto, ricordargli cosa può e deve fare è un normale esercizio giornalistico. Ma negli ultimi tempi, anche per questo, si rischia di incorrere nei suoi strali.

La Stampa 12.07.10