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"I reati? Non hanno colore", di Valerio Onida

Complice forse la giornata di “silenzio stampa” del 9 luglio, non hanno avuto molta eco finora due sentenze della Corte costituzionale in tema di immigrazione irregolare depositate l’8 luglio. La prima dichiara l’illegittimità costituzionale della norma, contenuta nel primo “pacchetto sicurezza” del 2008, che aveva introdotto l’aggravante dei reati, consistente nell’essere stati commessi da persona che si trova illegalmente sul territorio nazionale. Qualunque reato era punito più gravemente (con un aumento della pena fino a un terzo) se commesso da uno straniero extracomunitario in situazione di irregolarità.

La seconda sentenza dichiara invece non fondate o inammissibili le questioni di costituzionalità sul nuovo reato di ingresso o trattenimento nel territorio dello stato in violazione delle norme sull’immigrazione, introdotto e punito (con l’ammenda da 5 a 10mila euro) dal secondo “pacchetto sicurezza” del 2009.

Sul piano generale, la prima cosa da segnalare con soddisfazione è che la giustizia costituzionale ha fatto il suo corso: magari un poco tardi (due anni dopo l’approvazione della legge, nel caso dell’aggravante), ma viene restaurato il primato dei valori costituzionali. Commentiamo qui la prima delle due decisioni, riservandoci di farlo per la seconda in un successivo intervento.

Con la prima sentenza è dunque caduta una misura imposta in Parlamento con la forza dei numeri da una maggioranza vittima della nuova ideologia anti-immigrati, in contrasto palese con i fondamenti e i limiti costituzionali del diritto penale. Nessuno poteva pensare che la minaccia dell’aggravante costituisse una efficace dissuasione dal commettere reati, che sono comunque puniti. Essa aveva il solo senso di un messaggio all’opinione pubblica e agli elettori: gli immigrati “irregolari” non sono persone da trattare (e da sanzionare, se commettono illeciti) come le altre, ma costituiscono con la loro sola presenza un pericolo per la società.

Questa ideologia distoglie l’attenzione dalle ragioni di fondo dei flussi migratori e dalla considerazione dei modi corretti per governarli, salvaguardando i beni e i diritti costituzionalmente rilevanti (attraverso una saggia politica dell’immigrazione legale, e la lotta a tutte le forme di “sommerso”, dal lavoro nero alla criminalità organizzata, che di fatto alimentano in larga misura la irregolarità).
La Corte ancora una volta ha applicato il principio costituzionale che è a base di tutti gli altri, l’eguaglianza «senza distinzione… di condizioni personali e sociali» (articolo 3 della Costituzione). Ha ribadito la inammissibilità di norme penali che attribuiscano rilevanza – indipendentemente dalla necessità di salvaguardare altri interessi di rilievo costituzionale – a una qualità personale e la trasformino in un vero segno distintivo delle persone rientranti in una data categoria, in uno “stigma”; che la violazione delle norme sul controllo dei flussi migratori «non può introdurre automaticamente e preventivamente un giudizio di pericolosità del soggetto responsabile»; che ciò contrasta anche con il principio costituzionale di legalità dei reati e delle pene, per cui si punisce il soggetto per le condotte illecite tenute e non «per le sue qualità personali». Ha sottolineato infine che l’introduzione successiva del reato di immigrazione irregolare peggiorava ulteriormente la situazione, perché portava a una doppia penalizzazione (autonoma, e a titolo di aggravante) della stessa condotta.

Ciò significa che lo stato italiano deve divenire più “permissivo” in tema di contrasto alla immigrazione irregolare? Certamente no. Vuol dire solamente che deve smettere di considerare l’immigrazione irregolare come un problema soprattutto di ordine pubblico, da affrontare ampliando il ventaglio degli strumenti repressivi penali. Questo atteggiamento porta a distorcere la realtà e a corrompere i principi della politica criminale. Per altro verso, porta a vantarsi dei respingimenti in mare delle barche dei disperati, che, per “proteggere” le nostre coste, non esitano a mettere nelle mani di un regime come quello libico le sorti di esseri umani indifesi, mettendo fra parentesi i diritti umani. Porta a ignorare la grande varietà di situazioni e di circostanze che stanno dietro al fenomeno dell’immigrazione, e a “sparare nel mucchio”.

Le altre strade ci sono. Sono più difficili, è vero, richiedono più coraggio, più inventiva, più realismo, più capacità tecniche, organizzative e politiche, più risorse. Soprattutto richiedono la volontà di guardare in faccia i problemi nelle loro dimensioni e nelle loro cause, e non di inseguire un “facile” consenso elettorale fondato sulla paura e sulla chiusura.

Il Sole 24 Ore 16.07.10