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"Dai pentiti fasulli al depistaggio", di Giovanni Bianconi

Pm al lavoro sulla trattativa tra politica e mafia. Pezzi delle istituzioni, settori dello Stato, sottobosco della politica, apparati deviati, rappresentanti infedeli. Non c’è espressione che non sia stata utilizzata per descrivere ed evocare una situazione che qualche investigatore più avvertito aveva intuito fin dai primi giorni successivi alla strage di via D’Amelio, e cioè che dietro l’eliminazione del giudice Borsellino e degli agenti di scorta (a meno di due mesi dall’eccidio che aveva ucciso Giovanni Falcone, sua moglie e tre uomini addetti alla protezione con modalità altrettanti eversive) non c’era soltanto la mafia. Qualcun altro doveva aver spinto affinché i boss di Cosa nostra portassero a termine un’azione che nell’immediato fu un pessimo affare pr l’organizzazione criminale, visto la stretta repressiva che ne seguì.

Ora, a 18 anni da quell’esplosione, forse per la prima volta un’indagine giudiziaria si sta avvicinando a quella realtà nascosta. Su via D’Amelio, come sul fallito attentato a Falcone nella sua villa dell’Addaura, nel 1989. E questo provoca quel corto circuito di frasi riassunte nell’affermazione secondo la quale la verità sarebbe ormai a un passo, e chissà se la politica avrà la forza di sostenerla.

Il problema è che, seppure mai così vicina, quella verità ancora non la conosciamo. Sappiamo che quella passata finora come tale non lo è più. Il pentito Gaspare Spatuzza ha dato prova (secondo tutti i magistrati che hanno vagliato le sue deposizioni) di essere affidabile quando ha riscritto la storia dell’autobomba esplosa in via D’Amelio (fin dove la conosce), ritagliando un ruolo per sé e smentendo i falsi «collaboratori di giustizia » che avevano portato a ben due sentenze definitive. Da queste rivelazioni si è risaliti al depistaggio organizzato 18 anni fa con i pentiti fasulli; per quell’episodio sono indagati tre poliziotti e un quarto—l’ex questore di Palermo Arnaldo La Barbera, responsabile di quelle indagini — lo sarebbe se non fosse morto qualche anno fa. Ora non può difendersi, né dare la sua versione di una ricostruzione alla quale partecipò direttamente e che adesso si sta sgretolando.

Quel che sembra certo, però, è che depistaggio ci fu. E un depistaggio deve avere un movente. Una ragione che necessariamente evoca i meccanismi della politica e del potere. Che cosa si voleva coprire con una verità fabbricata a tavolino? C’era solo l’ansia di arrivare a un risultato immediato nel momento in cui lo Stato appariva in ginocchio di fronte all’offensiva mafiosa, oppure ci fu qualche trama per nascondere patti o alleanze indicibili? È possibile che Borsellino fu eliminato con una tempistica addirittura controproducente per Cosa nostra, ma obbligata dall’opposizione del magistrato a quella «trattativa» tra Stato e mafia di cui pure si parla da diciott’anni e che adesso acquista contorni un po’ più concreti?

Questo è un ulteriore novità delle ultime indagini, oltre all’acclarato depistaggio sulla strage di via D’Amelio: la consistenza di contatti tra uomini delle istituzioni e dell’organizzazione mafiosa, intesa come trattativa, o qualcosa di simile. Il presidente dell’Antimafia Giuseppe Pisanu ne ha parlato nella sua relazione, prima ancora dell’audizione dei procuratori. Così come ha ricordato ipotetici coinvolgimenti con uomini dei servizi segreti (uno è indagato per concorso in strage, dopo un riconoscimento seppure traballante del pentito Spatuzza) e altre entità: «Un intreccio tra mafia, politica, grandi affari, poteri occulti, gruppi eversivi e pezzi deviati dello Stato che più volte, e non solo in quegli anni, abbiamo visto riemergere dalle viscere del Paese».

Così ha scritto Pisanu, basandosi su acquisizioni giudiziarie già note e su quanto sta emergendo dalle nuove indagini. Che purtroppo rischiano di concludersi fornendo più domande che risposte. Anche per via di una certa tendenza a dimenticare da parte dei politici dell’epoca, alcuni dei quali hanno pensato bene di riferire solo oggi particolari che possono aiutare a disegnare un quadro più rispondente alla realtà; come il fatto che Borsellino fosse stato informato, poco prima di morire, dei contatti fra i carabinieri del Ros e l’ex sindaco mafioso di Palermo Vito Ciancimino, rivelato dall’allora ministro della Giustizia Claudio Martelli nel 2009. Sono tasselli dai quali potrà emergere una nuova verità giudiziaria, che difficilmente potrà essere esaustiva. Poi toccherà ancora alla politica.

Il Corriere della Sera 21.07.10