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"Tremonti, l’equità questa sconosciuta", di Alberto Fluvi

L’albero storto del fisco rischia di piegarsi ancora di più. Eppure, il tema di una riforma di sistema, che poggi sui pilastri della progressività e dell’equità fatica ad imporsi nel dibattito politico. A dir la verità, il ministro Tremonti ha insediato da tempo quattro tavoli di lavoro propedeutici ad una riforma del fisco italiano. L’impressione però è che la maggioranza sia più interessata a disegnare una sorta di manifesto elettorale che non impegnata a gettare le basi per un serio confronto parlamentare.
La tematica fiscale, la distribuzione del carico fiscale, la progressività del sistema tributario rappresentano il collante di una comunità, il filo che tiene insieme tutti i cittadini di uno Stato. Ed è soprattutto in momenti di difficoltà economica, come quello che stiamo attraversando, che il tema del fisco e dell’equità dovrebbero essere al centro del dibattito politico.
Non solo, dovrebbero informare ogni azione di governo. Anche i dati recentemente diffusi dal dipartimento delle finanze sulle dichiarazioni 2010 relative ai redditi 2009 evidenziano, se mai ve ne fosse bisogno, l’urgenza di mettere al centro il tema dell’equità.
Il dipartimento delle finanze ci dice sostanzialmente una cosa: l’Irpef grava quasi esclusivamente sui redditi da lavoro dipendente e da pensioni. Se è vero che il 32,6% del gettito Irpef si ricava dai redditi da pensione ed il 61% da quelli da lavoro dipendente si comprende come la progressività dell’imposizione fiscale, così come definita dall’articolo 53 della Carta costituzionale, riguardi ormai solo una parte dei contribuenti italiani.
La crisi economica e la riforma del Patto di stabilità Ue non fanno certo intravedere, a breve, il terreno favorevole per l’abbassamento delle tasse. Ma alcuni interventi che si pongano l’obiettivo, per esempio, di spostare il carico fiscale dal lavoro alla rendita, di utilizzare i proventi della lotta all’evasione fiscale per raddrizzare l’albero storto del fisco sono possibili anche assumendo il tema dell’invarianza di gettito.
Invece, la maggioranza sta attuando una serie di provvedimenti che rischiano di allargare ulteriormente, anziché ridurre, la forbice delle disuguaglianze.
Con il decreto milleproroghe il parlamento ha approvato la riforma della tassazione dei fondi comuni. Al di là dello strumento usato (che però non è indifferente), erano anni che si attendeva il passaggio dalla tassazione sul maturato a quella sul realizzato. A dire la verità, nella riforma c’è molto di più, tanto da fare dei fondi comuni uno strumento “privilegiato” d’investimento finanziario.
Ma al di là di questo, vediamo qual è la distribuzione fra le famiglie delle attività finanziarie. Leggendo l’indagine della Banca d’Italia su “I bilanci delle famiglie italiane nel 2008” ci rendiamo conto che quasi il 90% delle famiglie possiede una attività finanziaria. Gran parte (il 68,7%) solo depositi, ma solo l’11% delle famiglie possiede obbligazioni e fondi comuni. Se poi andiamo a spulciare le tabelle statistiche vediamo che non siamo di fronte propriamente a “famiglie medie”.
Era questa una riforma attesa da tempo, ma eludere il tema della tassazione delle rendite finanziarie (tassate al 12,5% mentre la prima aliquota Irpef è al 23%) significa fare una scelta ben precisa. Considerazioni simili le possiamo fare sulla “cedolare secca” sui redditi da locazione (21% per i contratti a canone libero e il 19% per quelli a canone concordato), introdotta con il decreto legislativo sul federalismo municipale a partire dal 2011. Se leggiamo la norma al di fuori di un contesto di sistema, niente da dire. Ma anche in questo caso, prendo sempre a riferimento l’indagine della Banca d’Italia, colpisce la distribuzione delle proprietà dalla seconda casa in poi, che ricalca quella relativa al possesso delle attività finanziarie.
Non solo, è appena il caso di ricordare che il vantaggio fiscale della “cedolare secca” sarà tanto maggiore quanto più elevato sarà il reddito del proprietario. Infine, la tassazione sostitutiva rischia di perdere molte delle sue potenzialità avendo rinunciato ad introdurre, attraverso una detrazione per gli affittuari, una sorta di contrasto d’interessi fra proprietario ed inquilino.
Infine, il federalismo fiscale. Con i provvedimenti relativi al federalismo municipale e regionale si sbloccano le addizionali Irpef. Niente da dire. Il tema dell’autonomia e della responsabilità di Regioni ed enti locali è il cuore del federalismo fiscale.
Si comprende però che, se il gettito dell’Irpef proviene per il 93% dai redditi da lavoro dipendente e da pensione, il rischio di amplificare le disuguaglianze attraverso le addizionali comunali e regionali è forte. Un rischio che non è solo teorico, se è vero come è vero che con il dl 78/2010 si sono tagliati a Comuni, Province e Regioni circa 15 miliardi di trasferimenti. Se Regioni e Comuni saranno costretti ad applicare le addizionali per “recuperare” i mancati trasferimenti, ci troveremo davanti non solo ad un “federalismo delle tasse”, ma ad un ulteriore effetto distorsivo del sistema fiscale italiano.
È quindi sempre più urgente aprire un confronto sul sistema fiscale del nostro paese. Equità, progressività, spostamento del carico fiscale dal lavoro alla rendita, utilizzo delle risorse recuperate dalla lotta all’evasione fiscale per raddrizzare l’albero storto, invarianza di gettito, possono rappresentare i confini di un confronto politico che reclama maggiore centralità.

da Europa Quotidiano 01.04.11