attualità

L'Aquila anno zero "Così ci hanno rubato la città", di Jenner Meletti

Mario Ianni, 75 anni, sta passeggiando con il suo Rocky. “È una fortuna, avere un cane. Almeno sei costretto ad uscire di casa. Gli altri anziani stanno tutto il giorno davanti alla tv. E che dovrebbero uscire a fare? Qui è tutta una desolazione”. New town di Bazzano, quasi duemila abitanti. È vero, alla mattina – dopo la partenza di chi ha la fortuna di avere ancora un lavoro – in giro ci sono solo anziani che fanno fare la passeggiata al loro amico. “Io ho sempre vissuto in mezzo alla gente: per 37 anni ho avuto una bancarella in piazza Duomo. Abitavo in via Pastorelli. Ci sono tornato l’altro giorno: sulle scale e sui letti ci sono ancora i mattoni rotti, come il 6 aprile 2009. Dieci mesi in albergo a Pineto, poi un letto nella caserma Campomizzi. Da agosto sono qui, con mia moglie. In hotel e in caserma almeno stavi in compagnia. Qui devo prendere la macchina anche per andare a bere un caffè o a comprare il pane. La desolazione è grande perché non sai quando tutto questo finirà. Alla mia età, non credo che riuscirò a tornare a casa mia”.

Tristezza e depressione. Sono queste le parole che raccontano questo secondo anniversario del terremoto (nella notte tra il 5 e il 6 aprile ci sarà una fiaccolata per ricordare le 309 vittime, compresa Giorgia, che avrevve dovuto nascere proprio il giorno del sisma) molto diverso dall’anno scorso, quando c’erano ancora rabbia e speranza. E nella “città dell’infelicità” – così la

chiama l’assessore Stefania Pezzopane – sono arrivati anche gli insulti di Forum, contro gli aquilani che “hanno tutti la villetta con giardino e garage” o vivono a sbafo negli hotel.

La realtà – purtroppo molto diversa – è quella fotografata dall’indagine Microdis – l’Aquila, finanziata dalla Comunità europea e realizzata dalle università di Firenze, delle Marche e de L’Aquila. Con quindicimila contatti, si è scoperto che per il 71% degli aquilani “la comunità è morta assieme al terremoto”, che il 68% vorrebbe lasciare la propria abitazione attuale, e che il 43% della popolazioni soffre di stress, una percentuale che arriva al 66% per le donne. Il 73% denuncia “una totale mancanza di posti di ritrovo per la comunità”, il 50% l’assenza di servizi essenziali.

Il sindaco Massimo Cialente non è sorpreso da questi numeri. “La comunità sta morendo perché il sisma ha distrutto la città, non pezzi di città. In tanti non l’hanno capito. Se non si adottano misure eccezionali – come è successo nel primo anno, quando il governo ci è stato vicino – si commetterà un omicidio: quello di un’intera comunità. Nei primi mesi, in 65 giorni, siamo riusciti a costruire i Musp, i moduli provvisori ad uso scolastico e ad aggiustare 60 scuole. Poi il nulla. Da quando, 14 mesi fa, è stata dichiarata la fine dell’emergenza, con la partenza della Protezione civile, ci sono tanti commissari e sub commissari che però affrontano i problemi in modo “normale”, senza deroghe. E così abbiamo perso 14 mesi e l’Aquila non riesce a riavere la questura e altri palazzi pubblici indispensabili, 1.200 famiglie sono ancora fuori dalle case popolari perché per avviare i lavori ci vogliono gli appalti … Io sono pronto ad assumermi la responsabilità politica, morale e anche giuridica di un colpo di acceleratore, perché se la città muore davvero, dopo potremo avere solo rimpianti. Fino ad oggi non è arrivato un euro per il rilancio economico, la ricostruzione pesante – quella vera – non è ancora partita. Io venti giorni fa mi sono dimesso, volevo che la città ricevesse una scossa. Commissari e sub commissari, a nome del governo, erano per il Comune un muro di gomma. La mia stessa maggioranza non aveva capito che la città era in agonia. Ora sono tornato in Comune perché il governo ha promesso che ci si metterà tutti attorno a un tavolo per discutere le cose da fare, con lo stesso spirito che c’era nei primi giorni. Speriamo sia vero”.

Ci sono ancora i soldati, a presidiare il centro storico pieno di macerie. “Non siamo più cittadini – dice Stefania Pezzopane – ma inquilini. C’è chi pensa che città significhi un insieme di case e garage. Ma anche per chi ha un tetto – ci sono comunque 36.000 persone in attesa di tornare a casa loro – non c’è più quel “vivere assieme” che è l’essenza della città. La cosa che fa più male è che anche i giovani se ne vogliono andare via. Gli studenti del liceo Domenico Cotugno, che era a fianco del Comune, hanno detto che dopo il diploma o la laurea partiranno tutti. Ora il liceo è in periferia, vorrebbero almeno studiare in centro, al pomeriggio, anche per potersi incontrare fuori da un supermercato o dai pub di via Croce Rossa. Per loro stiamo preparando un prefabbricato, davanti alla basilica di San Bernardino”.

C’erano 850 attività commerciali, nel centro storico. I negozi riaperti sono 20 in tutto. “Altri 70 potrebbero alzare la serranda – dice l’assessore Pezzopane – ma non lo fanno perché in centro non ci sono abitanti. Ormai le insegne più famose dei bar e dei negozi sono state messe nelle baracche di legno che circondano il centro ed hanno occupato ogni spazio libero. La città senza città pone problemi anche al Comune: abbiamo 26 milioni da spendere per il ripristino della rete sociale, per costruire centri per gli anziani e luoghi per i bambini ed i ragazzi. Dove li costruiamo? Nel centro senza abitanti o nelle new town piene di gente e senza nessun servizio? Dobbiamo riflettere. Se investiamo lontano dalle antiche mura, nel cuore della città potremo tornare solo per quelle che noi chiamiamo le passeggiate del dolore”.

C’erano 6.000 persone, nelle “domeniche della carriole” del febbraio e marzo dell’anno scorso. Ventimila ad occupare l’autostrada a luglio. Meno di cento persone nell’ultima iniziativa dei comitati l’altra settimana, per togliere l’erba dalla scalinata di San Bernardino. “L’Aquila – dice Eugenio Carlomagno, direttore dell’Accademia di belle arti – più che sconfitta è rassegnata. Da due anni chi vuole tornare a vivere nella propria casa in centro si scontra con i ritardi, la burocrazia e l’assenza di scelte politiche. In centro sarà necessario costituire fra i 300 ed i 400 consorzi per la ricostruzione, fino ad oggi ne sono nati solo 15 e ancora oggi non sappiamo a chi presentare la domanda di finanziamento. La rassegnazione non può stupire nessuno”.

Oggi il sindaco Cialente incontrerà la stampa estera a Roma, anche per ricordare gli impegni assunti dai Grandi al G8 e in gran parte non mantenuti. Chiese e monumenti “adottati” sono ancora orfani. Fra le poche eccezioni, il Giappone. Il sindaco ha inviato un messaggio al governo giapponese, per esprimere il lutto per il terremoto che ha colpito quel paese, e i giapponesi hanno ringraziato, aggiungendo che manterranno il proprio impegno di costruire – dopo la nuova sede del conservatorio – anche un nuovo palazzetto dello sport.
Massimo Casacchia, professore di psichiatria all’ateneo e responsabile dei servizi psichiatrici all’ospedale San Salvatore, conosce la tristezza della città sia come medico che come abitante di una new town. “In questi ultimi mesi stanno aumentando lo scoraggiamento, la rassegnazione, la tristezza. In termini clinici, questa si chiama depressione. Né è colpito il 40% della popolazione, forse la metà. Sono persone che hanno bisogno di colloqui con il loro medico o qui all’ospedale. Io vivo nella new town di Pagliare di Sassa. Un tetto, il caldo e nulla intorno. Se hai il tuo lavoro, te la cavi. Chi resta qui tutto il giorno non riesce a trovare un punto di incontro con gli altri, quasi tutti sconosciuti perché il terremoto è stato come una bomba che dal centro ci ha buttati in periferia e anche più lontano. Nelle frazioni invece delle new town hanno fatto i Map, moduli di abitazione provvisoria. Qui almeno hai come vicini di appartamento quelli che abitavano accanto a te, le relazioni rinascono subito. E sappiamo che il vero antidoto al disturbo e alla malattia mentale è la rete sociale”. Anche nella sua new town, al tramonto, si vedono solo uomini con cani al guinzaglio.

La Repubblica 02.04.11