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Il secondo terremoto del Giappone", di Francesco Guerrera

Non c’è voluto molto prima che le scosse di assestamento del terremoto giapponese arrivassero a Shreveport, un cittadone squallido nel profondo Sud degli Stati Uniti. Mentre i team di salvataggio nipponici cercavano superstiti e raccoglievano corpi tra le rovine di paesi distrutti dalle onde assassine, Shreveport ha aggiunto il suo nome alla lunga lista delle vittime della devastazione nipponica.

È qui, nell’hinterland paludoso della Louisiana, ad anni luce di distanza dal jazz e dai bar a luci rosse di New Orleans, che la General Motors produce molti dei suoi «pick-up trucks», i furgoncini con portabagagli scoperti tanto amati dagli americani.
È forse meglio dire «produceva», visto che l’impianto è chiuso da dieci giorni a causa della penuria di componenti provenienti dal Giappone.

I bene informati nell’industria automobilistica dicono che il motivo per cui la Gm sta tenendo a casa i 2000 e passa operai di Shreveport è la mancanza di un pezzo che misura il flusso d’aria nei motori. La Hitachi è il leader mondiale di questi sensori e la fabbrica a Nord di Tokyo che li produce è stata danneggiata dal terremoto.

E così, senza il know-how nipponico, i motori made in Usa che alimentano il sogno americano di libertà a quattro ruote non sanno nemmeno se hanno abbastanza aria per respirare – benvenuti nel mondo «globalizzato».

L’industria automobilistica non è la sola a guardare con ansia verso le isole nipponiche.
I produttori di gadget elettronici – compreso l’iPad, la nuova coperta di Linus per banchieri, avvocati e affini -, l’intera industria dell’acciaio, e persino venditori di beni di lusso come Tiffany, la gioielleria resa famosa da Audrey Hepburn, potrebbero perdere miliardi di dollari in fatturato nel dopo-terremoto.

La finanza le sue perdite le sta contando già, con compagnie d’assicurazione di mezzo mondo che dovranno pagare almeno una parte dei 200 miliardi di dollari necessari a ricostruire il Nord del Giappone.

I profeti della globalizzazione ci avevano rassicurato citando «The World is Flat», il best-seller di Thomas Friedman, che ormai il mondo era diventato «piatto» (con buona pace di Galileo…). Che l’esplosione nel commercio tra nazioni non più divise da guerre e distanze incolmabili avrebbe aumentato gli utili di aziende capaci di approfittare del progresso della tecnologia e dei trasporti.

E che la vita del consumatore sarebbe diventata più facile e meno costosa grazie all’«outsourcing», il processo di «delocalizzazione» in cui i prodotti vengono fabbricati nel Paese a più basso costo per poi essere esportati in tutto il mondo.

Non è che queste predizioni rosee non si siano avverate, anzi. Basta andare in un Wal-Mart, il supermercato statunitense che è un santuario del consumo a poco prezzo, per vedere i frutti della globalizzazione: carrozzine cinesi, T-shirt vietnamite e ombrelli cambogiani condividono le mensole con icone americane come la Coca-Cola, le Barbie e i film della Disney.

Quello che i proseliti della globalizzazione si sono dimenticati di aggiungere, però, è che un mondo così piatto – in cui merci e capitali si muovono liberamente intorno al pianeta – è molto più vulnerabile a crisi sia naturali che finanziarie.

Dei «contagi» finanziari sappiamo già molto, basti ricordare che gli effetti della bancarotta di Lehman Brothers, la banca d’affari americana, nel 2008 furono globali: ne soffrirono tutti, dai mercati asiatici alle banche regionali tedesche agli investitori di piccolo taglio del Minnesota.
Ora, il caso di Shreveport dimostra che le ripercussioni economiche di un disastro naturale seguono lo stesso copione, riecheggiando rapidamente a migliaia di chilometri di distanza.
Non è un caso che Tiffany, che deriva quasi un quinto del fatturato vendendo brillanti, collane e l’idea platonica di lusso «all’occidentale» ai giapponesi, abbia già detto che gli utili nei primi tre mesi dell’anno saranno meno di quanto predetto dagli analisti di Wall Street. Nel 1961, quando Audrey Hepburn fece la sua famosa colazione davanti alle vetrine del negozio newyorchese e Tiffany vendeva quasi tutta la sua mercanzia negli Usa, una mossa del genere sarebbe stata impensabile.

La realtà è che, nonostante un decennio di crescita zero, il Giappone produce quasi il 10 per cento del Pil mondiale e rimane una fonte fondamentale di componenti, e consumatori, per molte industrie.

I dirigenti di aziende elettroniche, con cui ho parlato di recente, sono in bilico tra il fatalismo e la paura.

Il Giappone, con la sua tradizione di eccellenza nell’ingegneria elettronica, è responsabile per il 60 per cento della produzione mondiale di «wafer» di silicio, un ingrediente fondamentale dei «chip» che sono in computer, iPad e videogiochi.

Per ora non c’è panico a Silicon Valley, in parte perché molte società hanno scorte di componenti che dovrebbero bastare per un po’ di settimane.

Ma nessuno sa cosa accadrà nei prossimi mesi, soprattutto perché i produttori giapponesi hanno rivelato poco o nulla sulla situazione delle loro fabbriche. Come mi ha detto un dirigente di una società di elettronica americana che ha un fatturato di miliardi di dollari: «Qui viviamo alla giornata. Non escludo di dover chiudere bottega per un paio di settimane se le parti incominciano a mancare».

Il dirigente non ha notato, o forse non ha voluto notare, la crudele ironia della situazione: il motivo per cui società di tutti i tipi, dalla Apple alla Gm, hanno giacenze così limitate – settimane invece di mesi o anni – è dovuto a un sofisticatissimo sistema di gestione delle scorte inventato proprio in Giappone, dalla Toyota.

Il sistema «just-in-time», che permette alle aziende di comprare componenti e produrre beni «appena in tempo», cioè solo quando sono richiesti da rivenditori e consumatori, è stato copiato da tutti perché riduce costi e sprechi.

Come la globalizzazione, però, la geniale idea della Toyota ha i suoi difetti, soprattutto in periodi di altissimo stress produttivo come quelli che stiamo vivendo, quando la mancanza di scorte mette a rischio vendite e posti di lavoro.

Purtroppo, o forse per fortuna, la globalizzazione soffre dello stesso problema che Winston Churchill identificò per la democrazia: non è perfetta, ma è meglio delle alternative.
Tornare indietro, a un’epoca di protezionismo, commercio anemico e prezzi alti per consumatori e aziende, non è né realistico né auspicabile.

Ma la prossima volta che uno dei fanatici della globalizzazione intona un peana al «mondo piatto», vale la pena ricordargli i sensori di Shreveport e poi magari cantargli anche una filastrocca che i bambini anglosassoni imparano alle elementari: «Un chiodo mancò e il ferro di cavallo fu perso / Il ferro di cavallo mancò e il cavallo fu perso / Il cavallo mancò e il cavaliere fu perso / Il cavaliere mancò e la battaglia fu persa / La battaglia mancò e il regno fu perso».

La Stampa 03.04.11