attualità, cultura, economia, partito democratico, politica italiana, università | ricerca

Documento di Economia e Finanza (DEF) 2011 – Relazione dell'on. Pier Paolo Baretta (PD)

Signor Presidente, Onorevoli colleghi,
la discussione di oggi avrebbe meritato una ben maggiore attenzione da parte della camera dei Deputati e nell’opinione pubblica. Le scelte che stiamo per compiere potranno segnare le prospettive economiche e sociali del nostro Paese oltre la attuale negativa congiuntura. La introduzione, infatti, della nuova governance comunitaria – il “semestre europeo” – si proporne, con la presentazione da parte degli Stati membri, in tempi prestabiliti, del DEF (comprendente il Programma di Stabilità e il Programma Nazionale di Riforme), di rafforzare il coordinamento preventivo (“ex ante”) delle politiche economiche e di bilancio nazionali, nonché la sorveglianza macro-economica e fiscale.

Ciò ha comportato la necessità di modificare la normativa contabile nazionale, ed è quel che abbiamo fatto poche settimane fa con legge 7 aprile 2011, n. 39, che ha adeguato la pur recente 196. Sono novità importanti che richiamano la esigenza di accelerare il processo di unificazione anche politica dell’Unione Europea.

Il punto di partenza è l’affermarsi di una cultura economica che prenda coscienza del fatto che misure di stabilizzazione, necessarie e coraggiose, non raggiungeranno l’obiettivo inderogabile del risanamento della finanza pubblica senza una robusta crescita economica, che favorisca condizioni generali di benessere materiale e di progresso civile; di equità sociale e riequilibrio territoriale.

E’ l’assenza di questa prospettiva la critica principale che rivolgiamo al Def, che, peraltro, non poteva che essere costruito così, essendo dall’inizio della legislatura (e sono ormai passati tre anni ed un bilancio si impone) che il governo traccheggia tra un risanamento incompiuto ed una crescita non perseguita. Un buco strategico derivato dal confronto tra la durezza della situazione economica e sociale, che la crisi ha esasperato e, da un lato, l’illusione ottica del “tutto va bene” dispensata dalla propaganda del premier e, dall’altro, l’evidente rassegnato pessimismo del ministro Tremonti sulla possibilità dell’Europa ed, ancor più dell’Italia, di competere nel nuovo scenario globale.

2) L’economia e la finanza pubblica

L’esito è un imprevisto, quanto tardivo realismo. Il Programma di stabilità rivede al ribasso le valutazioni contenute nella DFP del settembre 2010. (Per il 2011 il PIL italiano è stimato ad un tasso dell’1,1 per cento – rispetto all’1,3 per cento indicato nella DFP – e si mantiene, per tutto il periodo, ampiamente al di sotto del 2 per cento previsto dalla DFP: 1,3 per cento nel 2012, 1,5 per cento nel 2013 e 1,6 per cento nel 2014.). Si tratta di tassi sensibilmente più bassi della media dei paesi europei (2,4 per cento nel 2011 per la Germania, per la Francia l’1,6 e il Regno Unito l’1,7 per cento).

Come rilevato anche dalla Corte dei conti il debito pubblico è pari al 120 per cento del PIL nel 2011 e al 119,4 per cento nel 2013; con un indebitamento del 3,9 per cento del PIL nel 2011 e al 2,7 nel 2012; una pressione fiscale eccessiva (il 42,6 per cento); una ulteriore forte caduta degli investimenti pubblici (28 miliardi rispetto ai quasi 32 miliardi del 2010) e dal blocco temporaneo delle spese di personale delle amministrazioni pubbliche, disposto con il DL n. 78/2010. La spesa in conto capitale nel 2014 risulterebbe essere inferiore, al netto della manovra, di 8 miliardi di euro rispetto a quella del 2010 (una riduzione di 0,9 punti percentuali di Pil), e ammonterebbe al 2,6 per cento del PIL, il valore più basso degli ultimi decenni.

In questo quadro il Governo, ineffabilmente, prevede di rinviare al biennio 2013/14 (ovvero, sia detto neanche tanto per inciso, alla prossima legislatura!) l’onere di una massiccia manovra di circa 2,3 punti del PIL, pari a 20,3 miliardi di euro nel 2013 e per 40 miliardi nel 2014. Un aggiustamento che si profila di gran lunga superiore a quello compiuto per rispettare i parametri di Maastricht e poter partecipare fin dall’inizio alla moneta unica europea.

Mentre per il prossimo biennio 2011-2012 ci si affida all’andamento spontaneo dell’economia e della finanza pubblica, non essendo previsti stimoli alla crescita, nuove misure strutturali di riforma, interventi di contenimento del disavanzo, né azioni di riqualificazione della spesa.

Il Governo prevede, però, senza fornire indicazioni precise, tagli alla spesa dall’1 al 2 per cento l’anno. Nel complesso, tra il 2010 e il 2014 la spesa primaria corrente si ridurrebbe in termini reali di quasi il 7 per cento e, qualora il tasso di crescita del prodotto fosse inferiore, il raggiungimento degli obiettivi richiederebbe compressioni ancora più rilevanti.

C’è da chiedersi se sarà possibile raggiungere questi obiettivi e se non bisognerà prevedere un negoziato con la Commissione per una diversa modulazione degli obiettivi.

3) Il Programma nazionale delle riforme

Se, dunque, la variabile principale, ai fini della stabilità finanziaria, è la crescita, il Programma nazionale di riforma appare uno specchio dei limiti e dell’inefficacia della politica del Governo e, persino, dell’assenza di qualunque politica. Il PNR, infatti, solo in parte fa programmi o disegna riforme future; piuttosto, ripropone azioni già intraprese, attribuendogli meriti che non abbiamo visto.

Per il resto, sono contemplati solo obiettivi modestissimi, che non recuperano il gap con l’Europa, anzi… , sicché, come ha rilevato l’ISTAT, con queste scelte, nel 2020 diventeremo il fanalino di coda della comunità.

Non intendo entrare più di tanto nel merito dei punti del Def, rinviando alla lettura della relazione scritta consegnata ed alla risoluzione che abbiamo presentato e sulla quale chiediamo il voto della Camera. Non mi voglio esimere, però, dall’accennare ad alcuni titoli esemplificativi dei problemi irrisolti.

4) Il fisco per la ripresa economica e la sostenibilità sociale

In primo luogo il fisco. Alla politica fiscale viene dedicato uno spazio ampio, ma vuoto. La ennesima promessa di una riforma si sgonfia di fronte alla assenza di scelte concrete e al peso del debito pubblico. Abbiamo già notato l’eccesso di carico fiscale e bisogna ben passare dalle parole ai fatti. La priorità va data all’impresa ed al lavoro, soprattutto rispetto alla rendita, recuperando i contenuti della mozione a prima firma Bersani che la Camera ha approvato. In una progressione che tiene conto dell’equilibrio di bilancio, anche attraverso il recupero di risorse specifiche dalla lotta al nero e alla evasione, che restano piaghe insopportabili, bisogna dare risposte fiscali alle famiglie, soprattutto quelle con figli a carico, agli anziani soli e con basso reddito, ai giovani precari e a chi ha perso il lavoro.

Tutto ciò è particolarmente necessario a fronte del fatto che il Governo sembra affidare alla solidarietà famigliare la principale risorsa per far fronte a tutti i problemi di cui, nella maggior parte dei paesi, si fa carico in larga misura lo stato sociale: dalla povertà alla dipendenza in età anziana, dalla cura dei bambini al mancato adeguamento del sistema di protezione sociale a un mercato del lavoro flessibile, dove la precarietà e la disoccupazione colpiscono soprattutto i giovani: servirebbe, invece, un moderno sistema di ammortizzatori sociali e di tutele universali di cui godere, indipendentemente dal settore, dalla dimensione di impresa e dalla tipologia contrattuale.

Del tutto inaccettabile è l’assenza di un piano concreto di contrasto alla povertà. rispetto al quale del tutto insufficienti si rivelano essere i 50 milioni previsti dal PNR per la “carta acquisti”. E, a proposito di politiche sociali, va anche rilevata la contraddizione del Governo relativamente alla questione dell’immigrazione: nel DEF, infatti, essa compare quando garantisce un quadro di sostenibilità del debito pubblico, i cui scenari evolutivi di lungo periodo (fino al 2060) implicano un flusso netto medio annuo di 221 mila unità, per poi scomparire quando si tratta di potenziare le politiche di integrazione.

5) Le politiche dei fattori per la competitività e lo sviluppo

Il DEF richiama esplicitamente il legame fra infrastrutture e sviluppo, ma prevede un risparmio della spesa il cui effetto cumulato al 2014 è di circa 15 miliardi di euro. Eppure proprio l’Europa raccomanda di perseguire il risanamento dei conti pubblici senza penalizzare gli investimenti in infrastrutture.

L’energia è uno dei settori in cui meglio è rappresentata l’assenza di una strategia compiuta. Solo pochi mesi fa, nel precedente PNR il governo affidava ogni prospettiva di crescita alla sola energia nucleare. Dopo il disastro giapponese, saggiamente, ha annullato anche gli studi e non sarà facile, checché ne pensi Berlusconi, riprendere il tema in tempi brevi. Se non che, mentre rinunciava al nucleare, il governo tagliava gli incentivi alle rinnovabili. Oggi, dunque, non c’è un piano energetico, ma, nemmeno vi è, nel PNR, il Piano straordinario per l’efficienza energetica entro il 31 dicembre 2009, ma di questo non c’è traccia, anzi viene indebolito lo stesso 55 per cento per interventi di efficientamento degli edifici.

Per quanto riguarda la competitività il PNR la affronta indirettamente solo nella sezione “lavoro” attraverso l’obiettivo di rafforzare il legame fra salari reali e produttività; questione importante ma non esaustiva: innovazione tecnologica ed impiantistica, politiche commerciali sostenute dal Governo, credito propulsivo e politiche territoriali costituiscono altrettanti fattori di sviluppo. È necessario che la politica industriale torni a essere una delle componenti della più generale strategia di politica economica dell’Italia.

A fronte di queste ambizioni appaiono estremamente deludenti, in materia di ricerca e innovazione, sia l’obiettivo nazionale fissato dal PNR per il 2020 (la spesa all’1,53 per cento del PIL), molto lontano da quello dei principali paesi europei e dall’obiettivo che l’Europa si è data (il 3 per cento), sia gli strumenti indicati per raggiungerlo. Basti pensare al bluff del credito d’imposta al 90 per cento sulle commesse per ricerca di imprese a università e centri di ricerca pubblici, sostenuto, solo per il 2011, dai 100 milioni previsti dalla legge di stabilità.

Il PNR afferma la volontà di modernizzare la scuola e l’università, volontà che contrasta nettamente con le riduzioni di risorse effettuate (-20,5 miliardi dal 2009 al 2011). Clamoroso è il fatto che gli obiettivi di crescita dichiarati su questi argomenti ci collocano, nel 2020, all’ultimo posto in Europa.

Nessuno specifico progetto per il settore primario è presente nel Piano Nazionale di riforma, mentre non è più rinviabile l’individuazione di misure strategiche per l’agroalimentare che ha, invece, una grande valenza competitiva, ambientale, sociale e culturale.

L’obiettivo della riduzione dei divari regionali è condivisibile: tuttavia, l’analisi non è convincente, perché la retorica delle due economie con andamenti differenti non considera che il problema della crescita italiana riguarda sia il Nord che il sud. E’, però, pur vero che va data al Mezzogiorno una priorità che oggi non c’è. E’ quindi urgente che il Governo accerti con la Commissione europea la possibilità di rifinanziare con risorse comunitarie uno strumento di tipo automatico (credito d’imposta) volto all’acquisto di beni strumentali e all’incremento dell’occupazione e chiarisca come si concretizzerebbe l’annunciata misura di fiscalità differenziata, per la cui adozione è opportuno acquisire in tempi brevi le autorizzazioni comunitarie.

Per quanto riguarda le politiche di sviluppo e coesione, le percentuali di impegno e di spesa sul primo triennio dei piani relativi alla programmazione 2007-2013 sono molto più basse di quanto avvenuto nel ciclo precedente 2000-2006: segno che la capacità realizzativa sta peggiorando a causa di elementi (regole inefficienti, normative farraginose, programmazioni deboli, difficoltà di progettazione, procedimenti di selezione dei progetti poco efficaci, ecc.) che andrebbero velocemente rimossi ma dei quali il PNR non fa menzione.

Il DEF profila l’ennesima riforma della Pubblica amministrazione, certamente strategica soprattutto se il Governo non si limitasse ad annunciarla, ma la realizzasse davvero. La Corte dei conti ha di recente reso pubblico un documento che evidenzia come la manovra di finanza pubblica della scorsa estate abbia di fatto cancellato la riforma voluta dal Ministro per la pubblica amministrazione e l’innovazione per accrescere la produttività del lavoro pubblico, valorizzare il merito dei dipendenti e responsabilizzare la dirigenza e come ad oggi non risulti alcun incremento della produttività.

Come abbiamo già detto, ad ormai tre anni dall’inizio della legislatura è tempo di trarre bilanci anziché annunciare nuovi interventi: le misure per la semplificazione degli adempimenti amministrativi non sono state realizzate, si pensi al trasferimento sulla rete internet dello sportello unico delle imprese o alle «zone a burocrazia zero»; mentre per le imprese, come ha ricordato la stessa Confindustria, la semplificazione degli adempimenti amministrativi previsti dalle leggi è essenziale; sarebbe invece necessario intervenire concretamente sulla lotta alla corruzione, sulla razionalizzazione della struttura amministrativa centrale e periferica dello Stato, sulla riforma della dirigenza, con l’introduzione di una maggiore trasparenza nelle nomine e di nuove regole nei concorsi, per evitare la dipendenza dei dirigenti dalla politica.

Infine, fondamentale per la competitività è anche la riforma del processo civile, per la quale bisogna portare avanti un effettivo percorso di razionalizzazione e semplificazione, per far fronte tanto allo smaltimento dell’arretrato quanto ai nuovi flussi di contenzioso.

Signor Presidente,

Questo è solo un elenco, necessariamente incompleto, ma sufficiente a dimostrare, in definitiva, come l’impulso espansivo del programma di riforme fin qui attuato è, per stessa ammissione del DEF, molto modesto, non sufficiente a condurre la crescita in prossimità di quel 2 per cento necessario a conciliare l’obiettivo di ridurre l’indebitamento e il debito pubblico.

Per tutti questi motivi il nostro parere sulla manovra economica del governo è negativo ed abbiamo ritenuto necessario presentare una nostra risoluzione alternativa sulla quale chiediamo il voto della Camera.

6) Un progetto alternativo

Ciò che è necessario, dunque, è un cambio di strategia.

Per contribuirvi il Partito Democratico ha elaborato un proprio Programma Nazionale di Riforma che, nel pieno rispetto della stabilità finanziaria e delle regole europee, rimette al centro dell’attenzione la crescita e l’occupazione, in particolare femminile e giovanile, l’efficienza e l’equità fiscale. Nel quadro di una politica economica europea per il sostegno della domanda interna, vanno realizzate riforme per incrementare il potenziale della nostra economia attraverso obiettivi concreti quali l’aumento del tasso di occupazione femminile al 60 per cento in un decennio, l’innalzamento della specializzazione produttiva, dell’innovazione e della ricerca, politiche di valorizzazione e partecipazione del capitale umano, possono generare, rispetto allo scenario tendenziale e senza misure di finanza straordinaria, un incremento medio annuo del PIL pari allo 0,5-0,6 per cento con effetti positivi sia sulla velocità di convergenza che sugli sforzi necessari alla riduzione del debito.

Non bisogna rassegnarsi al declino annunciato. Le difficoltà possono essere affrontate. L’Italia è, tuttora, uno dei più grandi paesi del mondo con risorse naturali, artistiche, produttive e logistiche che le permettono di ambire ad un ruolo protagonista nel mutato e complesso panorama globale.

www.areadem.info