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"Centri antiviolenza. Avamposti disarmati dal taglio dei fondi", di Luciana Cimino

Gli effetti dei tagli al Welfare, tra governo ed enti locali, rende drammatica la situazione dei centri antiviolenza sparsi sul territorio. Le strutture che difendono donne e minori costrette a chiudere i battenti. Donne e minori maltrattati e vittime di violenze sempre più soli in Italia. I Centri antiviolenza, già insufficienti sul nostro territorio, chiudono uno dopo l’altro, o, se non cessano le attività, portano avanti la programmazione tra mille difficoltà causate dalla disattenzione di Governo e enti locali.
Eppure i centri rappresentano spesso l’unico baluardo di difesa, e spesso di sopravvivenza, per le donne abusate dagli stessi familiari, o stuprate o per le sempre più numerose vittime degli stalker. Questo infatti è il paradosso: la legge sullo stalking prevede che alla donna perseguitata che si rivolge a un presidio ospedaliero o alle forze dell’ordine, deve essere indicato il centro antiviolenza più vicino. Peccato che poi gli stessi centri vengano messi in condizione di non operare, nonostante aumentino le richieste di aiuto. È la denuncia di Alessandra Bagnara, presidente di Dire (Donne in rete contro la violenza), sigla che raccoglie quasi 60 centri sparsi per la penisola. Di questi 40 sono in difficoltà finanziarie enormi o hanno chiuso definitivamente a causa della totale assenza di finanziamenti pubblici. Da nord a sud. «Il fatto è che i finanziamenti sono delegati agli enti locali – spiega Bagnara – questo ha creato in Italia una situazione a macchia di leopardo: una donna che subisce violenza non è ugualmente supportata in una regione come in un altra». «In Molisenon c’è nulla, in Campania c’è solo un centro a Napoli, in Piemonte funziona solo Torino, in Val D’Aosta niente, Sicilia e Sardegna funzionano a singhiozzo», continua Bagnara.
PROMESSE DEL MINISTRO
Il ministro per le Pari Opportunità si era impegnata più volte a sostenere i centri, perlomeno sbloccando un finanziamento di circa 20 milioni di euro già previsto dal governo Prodi. Per tre anni non si è visto nulla. Poi a marzo l’approvazione del Piano nazionale che prevedeva lo stanziamento dei fondi subordinato all’emanazione di alcuni bandi (ancora non effettuata). Ma le cooperative che da anni gestiscono i centri e lavorano sul territorio non ci stanno. «Per prima cosa – dicono dalla Dire – il Piano della Carfagna prevede siano sempre gli enti locali a occuparsene. Dunque non risolve nessun problema perché se ilComune o la Regione non riconoscono il progetto, un centro operativo da anni rischia di non essere finanziato, mentre noi chiedevamo il sostegno diretto da parte del governo. Inoltre era necessario realizzare centri dove non ne esistono, invece l’esecutivo parla di “implementare” e cosa implementi dove non c’è nulla? Lascia al libero arbitrio degli enti locali in momenti di crisi di bilancio, mentre abbiamo un aumento esponenziale di donne e bambine maltrattante, con un incremento di casi denunciati del 20%».
MAPPA DELLE DIFFICOLTÀ
E mentre il ministero tergiversa, versano in terribili difficoltà economiche i centri di Belluno, Gorizia, Catania. Soffoca Cosenza, unico centro in tutta la Calabria, che già a giugno 2010 ha dovuto chiudere la casa-rifugio. «Il centro va avanti con autotassazioni e
autofinaziamenti – spiega la responsabile, Antonella Veltri – eppure c’è una legge regionale varata dalla precedente giunta di centrosinistra, solo che ora sembra finita nel dimenticatoio. Siamo in attesa dei risultati di un bando generico. L’affitto è alto, non potremo andare avanti per più di un anno». Strozzato dall’affitto anche il centro Lisa, a Roma. È situato in un locale dell’Ater (l’ente che gestisce l’edilizia pubblica, ndr) ma non gli viene riconosciuta la funzione sociale. Risultato: l’Ater ha chiesto 20 mila euro di affitti arretrati. Un salasso per una struttura che si basa sul lavoro volontario delle operatrici e si mantiene con sottoscrizioni e feste di finanziamento.
Il centro “Le onde” di Palermo accoglie circa 400 donne l’anno. Come per gli altri, si tratta per lo più di donne e bambini vittime di violenza tra le mura domestiche. Hanno un progetto della Comunità europea che dura 15 mesi, dopo chissà. «A parole c’è attenzione – commenta Vittoria Messina, la presidente – ma non c’è un’azione di sistema per lavorare con le donne che vivono queste situazioni,
nonché per la formazione degli operatori. È come se la violenza di genere venisse trattata come un problema secondario rispetto ad altri. E quando succedono i fatti di cronaca si affronta l’emergenza piuttosto che aiutare la donna a essere capace di risollevarsi.
Non c’è attenzione a livello civile, magari compassione, ma non lucidità e coerenza nella programmazione di interventi. È lo specchio della realtà nazionale».

L’Unità 19.08.11