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"Due milioni a rischio mobilità. Via al valzer degli statali", di Raffaello Masci

Ve lo diciamo in burocratese, abbiate pazienza: «I dipendenti delle amministrazioni pubbliche, esclusi i magistrati, su richiesta del datore di lavoro, sono tenuti ad effettuare la prestazione in luogo di lavoro e sede diversi, sulla base di motivate esigenze, tecniche e organizzative» (articolo 1 della manovra all’attenzione del Senato, comma 29). Se avete capito qualcosa, avete capito bene: d’ora in avanti i dipendenti pubblici potranno essere trasferiti dove servono (sia pur in ambito regionale) sennò, tanti saluti. La norma non si applica solo ad alcune categorie che hanno già una regolamentazione della mobilità in atto (scuola, forze dell’ordine, università). Sintesi: su 3 milioni e mezzo di dipendenti pubblici, 2 milioni e 100 mila debbono stare sul chi vive.

La cosa, peraltro, avviene nel momento in cui quasi duemila comuni e 30 province (nulla è più incerto di questi numeri fluttuanti) chiudono baracca e lasciano «in mobilità» circa 25-30 mila dipendenti. Dunque c’è da attendersi un inedito giro di valzer? Per avere la risposta ci siamo rivolti al segretario della Cgil Funzione pubblica, Michele Gentile, non come sindacalista ma come grande esperto di burocrazia pesante, in grado di fare l’esegesi di un testo legislativo oscuro per i più.

Mobilità «Il senso è – sintetizza Gentile, in romanesco – ‘ndo me servi te metto». La possibilità di trasferire pubblici dipendenti esiste da sempre ma era, in genere, oggetto di contrattazione sindacale o con il singolo. Ora la norma si fa perentoria e riguarda tutti (con le eccezioni di cui sopra). Certo, si fa tutto d’accordo con il sindacato ma, «nelle more della contrattazione» dice sempre la legge, valgono le esigenze delle varie amministrazioni. E poiché il prossimo contratto – ammesso che affronti e deliberi su questa materia – si farà nel 2015, da qui ad allora i dipendenti possono essere spostati dove serve, nell’ambito della regione. Con buona pace di chi storce il naso.

Chi riguarda?

Tutti? Veramente tutti possono essere spostati? «Sì – specifica Gentile – con alcune eccezioni: i magistrati, che sono esplicitamente esclusi, e i dipendenti dell’amministrazione degli interni per i quali, invece, il trasferimento può avvenire non solo su base regionale ma su quella nazionale, forse per la soppressione di alcune prefetture legate alle province da eliminare». A queste categorie si aggiungono le forze armate e dell’ordine, per le quali la mobilità è obbligatoria da sempre, la scuola che già la prevede e la regola con norme proprie, la docenza universitaria perché le singole università sono autonome. Poi ci sono i posti in organico che si perdono: il 10% sia dei dirigenti che del personale dei ministeri (30 mila posti in totale) e quelli in esubero nelle province e nei comuni soppressi, per i quali è difficilefare un calcolo, in quanto non si sa come avverranno le soppressioni, le riaggregazioni, le ridistribuzioni. In totale, tuttavia, si stima che ci siano 20-25 mila persone da ricollocare, e questo potrebbe avere un effetto domino.

Province Articolo 15, comma 3: le funzioni e il personale delle Province soppresse vengono acquisiti dalle Regioni, dice la norma. Le quali Regioni cosa fanno? O li distribuiscono ai comuni, o li affidano alle province confinanti, oppure se li tengono per sé. «La cosa più probabile – dice ancora Gentile – è che quel personale resti sul territorio, in quanto le funzioni provinciali lì si debbono svolgere, sia pur alle dipendenze formali di un altro ente locale. Ma una parte del personale potrebbe essere in esubero». E allora si può essere trasferiti ad altre amministrazioni, a patto che siano all’interno della Regione. Un esempio paradossale? Un dipendente della provincia (soppressa) di Rieti, a 5 chilometri da quella di Terni, può essere sbattuto a Latina (200 chilometri a Sud) ma a Terni, Regione Umbria, no.

Comuni «Qui la cosa si fa complicata – dice Gentile – perché se in sede di discussione la norma non viene riscritta, ci siamo infilati in un vicolo cieco». La questione è nota: i comuni piccoli si debbono accorpare a patto, però, che siano «contermini», (così dice l’articolo 16 comma 4) e quindi se due cocuzzoli hanno in mezzo un paesotto di tremila abitanti, niente da fare. «Questo significa che il personale dei due cocuzzoli – spiega Gentile – resta lì dov’è». Si ridurrà, al più, il numero dei consiglieri comunali: una quantità stimata nelle 20 mila unità su base nazionale, niente a che vedere con le 87 mila cariche elettive in meno promesse dal ministro Calderoli. Tant’è che nella relazione che accompagna la manovra, in assenza di numeri certi, i tecnici si sono tenuti cauti: «Risparmio, zero». Poi, a conti fatti, si vedrà

La Stampa 20.08.11

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Dipendenti contro autonomi: la guerra tra deboli

Alla fine sarà una disputa tra deboli. Altroché contributo di solidarietà. Ci si mette pure Prodi a dire che il baluardo della democrazia è lo scontrino fiscale. Nei giorni scorsi Massimo Gramellini su questo giornale aveva perfettamente sintetizzato il pensiero di chi non può (che è cosa diversa dal dire “non vuole”) evadere le tasse. “Io vi disprezzo”, scrisse Gramellini.
A menta calda non potevo che dargli ragione. Come dargli torto quando si legge che i gioiellieri denunciano in media 14mila euro l’anno?

Però, ora non credo che tra gli autonomi si possa sorridere molto. La crisi colpisce soprattutto loro, non protetti e non certo aiutati dallo Stato. Darei questo spazio a loro, mi piacerebbe raccogliere testimonianze anche di evasori (tanto i messaggi possono essere anonimi) che vedono nell’elusione fiscale il modo per sopravvivere. Vorrei capire quanto si evade per questo motivo e quanto per comprarsi l’ultimo Suv.
E vorrei sapere dai dipendenti come fanno a “resistere” alla proposta “Sono 100 senza fattura o 150 con”. E’ dura capire al momento che quello che non paghiamo al momento in cui si fa il nero, lo pagheremo più avanti (almeno noi dipendenti).

Cerchiamo però di evitare la contrapposizione. Il rischio, per tutti, è che finisca per essere una guerra tra poveri.

La Stampa 20.08.11