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Bauman "Se non ti vendi la tua vita è miserabile", intervista a Zygmunt Bauman di Andrea Malaguti

Zygmunt Bauman, nato a Poznan nel 1925, vive in Inghilterra dal 1971, dopo aver lasciato la Polonia comunista in seguito alle epurazioni antisemite. Studioso della civiltà postmoderna, ha insegnato sociologia all’università di Leeds fino al 1990 Il padre della società liquida analizza i rapporti tra Web e Comunità, dalla primavera araba al mito della celebrità su Facebook. Venerdì prossimo sarà a Sarzana per il Festival della mente che prevede 80 eventi, tra lezioni pubbliche, laboratori, spettacoli
Nel piccolo giardino della sua casa di Leeds, una villetta a tre piani dipinta di bianco non troppo lontana dall’Università, il professor Zygmunt Bauman, filosofo e sociologo della società liquida, cammina fumando la pipa in mezzo alle piante che crescono selvaggiamente. «Solo questa quercia è arrivata prima di me. Ha 200 anni. Il resto l’abbiamo piantato io e mia moglie. Mi manca molto Janina, 63 anni di vita comune hanno dato senso a quello che sono». Un vestito scuro, il girocollo grigio, il viso scavato incorniciato dai capelli bianchi, gli occhi inquieti che la luce faticosa di questa mattina di agosto inglese rende ancora più profondi e mobili. E’ un uomo lungo, con mani sottili e pensieri rapidi. E’ invecchiato dolcemente, gestendo i suoi dolori. «Lascio che le piante si muovano come credono. Il mio giardiniere è Darwin. L’evoluzione è inarrestabile». Lui si occupa dell’evoluzione dell’uomo. Di come si organizza. Dalle rivoluzioni con la lancia a quelle con il computer. E’ stato un lungo viaggio.

Professore, ci sarebbe stata la primavera araba senza facebook?
«No, ma mi pare che questa domanda ne pretenda un’altra».

Quale?
«Che ne è dell’estate araba? Qualcuno ne sa qualcosa?».

No, ma che cosa significa?
«Significa che ciò che si può fare attraverso i social network è spettacolare, impressionante, ma “so what?” Che cosa succede poi? Egiziani e tunisini hanno forse idea del loro futuro?».

Internet innesca meccanismi fuori controllo?
«Internet innesca meccanismi. Ma qual è la connessione tra quello che è successo e la forma che avranno i regimi di questi Paesi? Sospetto che sia parecchio debole. La rete lavora molto sugli effetti in termini brevi, ma in nessun modo sulla possibilità di costruire una nuova società in termini reali».

Ormai ci sono due mondi, uno «on line» e uno «off line».
«Esatto. Ma qualunque cosa tu faccia off line ha delle conseguenze, mentre le rivoluzioni via internet hanno un inizio rapido e una fine altrettanto rapida».

Perché in Siria non ha funzionato?
«Perché la vita vera si muove in modo diverso. E per arrivare da qualche parte ha bisogno della politica. Ha bisogno di un progetto. La politica è decisiva. Ma la globalizzazione l’ha tagliata fuori. E’ urgente riconsegnarle un ruolo centrale».

Anders Breivik, il macellaio di Oslo e Utoya aveva anticipato il suo piano delirante su internet. Perché nessuno l’ha fermato?
«Perché nessuno si è accorto di lui. Internet è solo uno strumento, non è né buono né cattivo. Come un rasoio. Lo puoi usare per tagliarti la barba, ma anche per tagliare le gole. Come ha osservato Josh Rose, dell’agenzia pubblicitaria Deutsche LA, internet non sottrae la nostra umanità, la rispecchia».

Come ci cambia la rete?
«Ci mette in contatto più velocemente, ma ci rende più deboli. C’è un’espressione inglese che trovo molto efficace: nessun pranzo è gratis. Guadagni qualcosa, perdi qualcosa».

Che differenza c’è tra rete e comunità reale?
«La prima è il luogo della libertà. La seconda della sicurezza. Sulla comunità si può contare come su un vero amico. E’ più affidabile. Ma anche più vincolante. Ti controlla. La rete è libera, ma serve soprattutto per i momenti di svago. E per uscire dalle relazioni in fondo basta spingere il tasto delete. Però mi pare che siamo tutti d’accordo sul fatto che tra abbracciare qualcuno e “pokarlo” ci sia differenza».

In rete però si possono trovare anche 300 amici al giorno.
«Decisamente molti di più di quelli che io ho avuto nei miei 86 anni di vita. Robin Dunbar, che insegna antropologia evoluzionistica a Oxford, dice che la nostra mente non è predisposta per avere più di 150 rapporti significativi».

Come è cambiata la definizione di rapporto «significativo»?
«Secondo lo psichiatra e psicanalista Serge Tisseron i rapporti significativi sono passati dall’”intimità” a quella che lui chiama “estimità”. Volendo fissare un punto si può pensare a metà degli Anni Ottanta, quando a un talk show francese tale Vivianne dichiarò di non avere mai avuto un orgasmo perché suo marito era affetto da eiaculazione precoce. Non si trattava solo di rendere pubblici atti privati. Ma anche di farlo in un’arena aperta».

Su internet puoi dire le stesse cose celando la tua identità.
«E’ vero. C’è una grande sensazione di impunità. Sono sicuro che ci sono migliaia di messaggi crudeli come quelli di Breivik in rete. Intervenire è impossibile, non possiamo leggere tutto. Ma se sei timido e cerchi una ragazza la rete è un dono di Dio».

Qual è il segreto di Zuckerberg?
«Immagino che molti dei suoi utenti non riuscissero a sfuggire alla propria solitudine. In più dovevano sentirsi penosamente trascurati. Zuckerberg li ha liberati».

Perché abbiamo bisogno di un confessionale virtuale?
«Siamo fatti così, ci serve la società per essere felici. Vogliamo essere individui speciali, diversi, con sogni unici. Ma quando abbiamo lavorato così duramente per creare la nostra identità dobbiamo andare in piazza e vederla confermata».

Mancanza di autostima?
«Natura. L’identità è un segreto e una contraddizione in termini. L’arena pubblica è l’equivalente dell’Agorà. Solo che adesso è popolata dal racconto di problemi privati. Il talk show è la piazza. E il nostro modello non sono i politici, ma le celebrità. E chi sono le celebrità? Persone conosciute per essere molto conosciute. Su Facebook c’è una rubrica specifica. Si chiama: “I like it”. Sono gli altri che esprimono il loro apprezzamento per quello che facciamo. E il numero delle persone che ci visitano definiscono il nostro successo. E’ la società dei consumi. Se non ti vendi sei destinato a una vita miserabile».

La Stampa 27.08.11