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"Accoglienza profughi, l’inferno dopo gli sbarchi", di Laura Anello

Sa che cos’ha trovato la polizia? Da mangiare, in magazzino, qualche cipolla. E un solo bagno per ventiquattro ragazzi». È fatto d’acciaio Joseph Amoako Dwomor, 21 anni, del Ghana. Non ha avuto paura quando tre anni fa è salito su un barcone per approdare a Lampedusa. Non ne ha avuta neanche quando l’altro giorno – lui che vive a Piazza Armerina con un permesso di soggiorno per motivi di studio – ha bussato al commissariato del paese per dire che la struttura di accoglienza «I tre pini» era un inferno. E i 24 ragazzi del Ghana ospiti lì tanti Oliver Twist con la pelle nera. «Vogliamo dare un’altra possibilità alla proprietaria?», gli ha chiesto l’ispettrice conciliante. «No», ha risposto lui, preparandosi a verbalizzare una denuncia per truffa.
La punta dell’iceberg di un affare, quello dei centri convenzionati con la Protezione civile, che viaggia alla media di 40 euro al giorno per l’ospitalità ai migranti maggiorenni e di 67 euro per i minorenni. Oltre mille strutture in tutta Italia, alcune di esperienza (comunità di accoglienza, parrocchie, strutture della rete Sprar per asilanti), altre del tutto improvvisate: alberghi, bed & breakfast, ostelli, appartamenti in condominio individuati da ogni Protezione civile regionale «dopo aver fatto ricerche di mercato», come si legge nell’ordinanza del 20 giugno scorso che ha aperto alle convenzioni con i centri pubblici e privati.
In sostanza non serve alcun requisito. E si va avanti sulla base di candidature spontanee su cui poi si contratta il prezzo: massimo 46 euro per i maggiorenni, 80 per le «strutture ponte» rivolte ai minorenni, che si chiamano così perché servono a traghettare i ragazzini verso la sistemazione definitiva nelle case famiglia, che però accolgono con il contagocce. Tutto vale, in tempi di emergenza, quando gli sbarchi incalzano e i centri d’accoglienza sono strapieni.
Sulla carta, nella convenzione, le strutture si impegnano a fornire colazione, pranzo e cena, biancheria e abiti, materiale per l’igiene personale, mediazione culturale. Che è un servizio cruciale perché comprende il sostegno psicologico, l’insegnamento dell’italiano, l’inserimento dei minori a scuola, l’assistenza sanitaria, l’orientamento, i rapporti per la questura. Previste pure cinque sigarette al giorno e una scheda telefonica che garantisca un minuto di conversazione con la famiglia lontana. O in alternativa, un «pocket money» da due euro e mezzo.
In realtà la prevista attività di controllo capillare da parte della Protezione civile è un’utopia, e succede di tutto. In alcune regioni la situazione è così preoccupante che si sta cercando di correre ai ripari: in Sicilia, per esempio, è stato appena costituito un gruppo di monitoraggio attraverso il coordinamento di associazioni del progetto «Praesidium»: Oim, Croce rossa italiana, Save the children, Achnur.
«Non parliamo di accoglienza, parliamo di attività per arraffare denaro», taglia corto Gabriele Presti, il commissario capo di Piazza Armerina che, dopo avere ascoltato Joseph e i 24 ragazzi ospiti, ha mandato ai «Tre pini» le volanti per vedere che aria tirasse. «Non abbiamo poteri di controllo -spiega – ma ci siamo resi conto dell’assoluta inadeguatezza della struttura, e avvertito la Protezione civile. Chiuderla da un giorno all’altro significava togliere il tetto sulla testa ai ragazzi, ma mi risulta che si sta cercando a breve una soluzione alternativa». La convenzione prevede che il rapporto con il centro privato, in caso di gravi inadempienze, si rescinda con un preavviso di quindici giorni.
«Mi ero proposto qualche settimana fa per fare il mediatore culturale racconta Joseph – e mi è bastato poco a capire come funzionasse la storia. Molti ragazzi avevano ancora le scarpe sfondate di quando erano sbarcati, alcuni di loro non avevano ancora capito dove fossero, a pranzo un piatto di pasta scotta, un solo operatore che si arrangiava come poteva, un cuoco di 65 anni che non aveva mai cucinato in vita sua. Per pranzo un po’ di pasta scondita e, quando andava bene, un pezzo di una fetta di pollo tagliata in tre parti». Joseph usa parole come rispetto, diritti, regole. Tiene per mano una giovanissima, timida ragazza palermitana che si è appena diplomata all’Alberghiero, la sua fidanzata.
Racconta: «Ho detto alla proprietaria: signora, questi ragazzi parlano solo il dialetto, devono imparare l’italiano. In un primo momento mi ha risposto: va bene, poi quando ha scoperto che bisognava comprare per tutti almeno un quaderno e una matita, è andata su tutte le furie. Le ho spiegato che servivano le fotografie per i documenti in questura, mi ha gridato che lei non tirava fuori un soldo. Un’altra volta ha cucinato con le sue mani frittelle disgustose e mi ha ordinato: di’ ai ragazzi che le ho comprate al ristorante. Ho risposto: no, signora, non faccio questo tipo di mediazione, se vuole glielo dica lei».
Così Joseph ha sbattutola porta e se n’è andato, anche se non ha un lavoro alternativo, dando una lezione di coraggio, di orgoglio, ma pure di fiducia nelle istituzioni. «Non mi va – dice con un sorriso – di lavorare per finta per prendere soldi, e stare zitto, altrimenti il mondo non cambierà mai».

La Stampa 29.08.11