attualità, lavoro

"Un piano per il lavoro", di Laura Pennacchi

Ci si chiede se i leader mondiali, rinunziando a dare assoluta priorità alla tematica della crescita, non stiano sottovalutando la gravità, la durata, la strutturalità della crisi globale. Obama è l’unico che prepara, nell’anniversario del Labor day, misure per un rilancio della crescita. Nel frattempo politiche restrittive e recessive vengono adottate simultaneamente dai governanti europei, con il governo Berlusconi in cima alla classifica per la tragicomicità della manovra, giunta alla sua quarta convulsa riscrittura. Il fatto è che in tutto l’Occidente una disoccupazione persistentemente molto elevata (22,7 milioni i senza lavoro in Europa, 14 milioni negli Usa) segnala che uscire dalla recessione si sta rivelando molto più difficile del previsto, poiché, se la domanda aggregata crolla, il settore immobiliare declina e i consumi flettono, anche la liquidità creata da politiche monetarie accomodanti non prende la via degli investimenti. Non a caso Bernanke, presidente dell’americana Fed, all’incontro annuale di Jackson Hole di qualche giorno fa, nel ricordare che «politiche a breve per rilanciare la crescita e rimettere la gente al lavoro diventano centrali per il successo di lungo periodo», ha insistito che «seppure la questione della sostenibilità fiscale debba essere affrontata con urgenza, i politici preposti alle decisioni in materia non dovrebbero ignorare la fragilità dell’attuale ripresa economica». Il punto è che per prendere sul serio la fragilità dell’economia reale mondiale serve un grande salto culturale per affrontare la questione del lavoro, della crescita e degli investimenti in termini innovativi, sottratti agli stereotipi convenzionali dell’ortodossia neoliberista. Qui ci soccorrono le avanzate impostazioni, che puntano sulla creazione diretta di lavoro da parte di agenzie pubbliche, di due studi americani che si basano sull’assoluta importanza attribuita agli investimenti, al punto che si chiede che l’intera politica federale sia «investment-oriented» e capitoli dei rapporti si intitolano «The virtues of public investment». La convinzione è che il job gap non sia soltanto un effetto della recessione: una volta stabilitosi esso diventa un meccanismo autoperpentuantesi che ostacola il processo della ripresa economica (frena il mercato degli immobili e l’industria delle costruzioni, forza all’attesa i consumi, costringe all’immobilismo il settore dei beni capitale, mantiene la finanza nella riluttanza a concedere prestiti). Se negli Usa il programma Arra di 787 miliardi di dollari del 2008 ha generato 3-4 milioni di posti di lavoro, ce ne vorrebbe il doppio per creare i 6-8 milioni di posti oggi necessari per portare il tasso di disoccupazione al 5%. Ma questa via molto costosa per generare lavoro può essere sostituita da una strategia più efficace che «spinga le persone al lavoro come mezzo di nutrimento della crescita». Cioè per produrre una «ripresa trainata dal lavoro» piuttosto che una «ripresa senza lavoro». Si tratta di una scelta che punta a creare lavoro per i disoccupati direttamente in programmi di impiego pubblico che producano beni e servizi utili. Questa politica – l’uso del denaro pubblico per finanziare programmi diretti di job creation – crea molto più lavoro e in tempi più rapidi rispetto a politiche similari: a parità di risorse impiegate, fino a 10 volte di più delle scelte di stimolo fiscale indifferenziato (per esempio i tagli di tasse dell’era di Bush) e da 2 a 4 volte di più delle opzioni di trasferimento monetario (come l’incremento degli ammortizzatori sociali o la riduzione dei contributi sui lavoratori). Back to Work calcola che, al costo netto di soli 28,6 miliardi di dollari (46,4 miliardi al lordo), un programma di diretta job creation amministrato dal governo americano potrebbe creare un milione di posti di lavoro temporanei aggiuntivi, con un effetto moltiplicatore di altri 414.000 posti al di fuori del programma. L’indicazione della varietà di strutture amministrative che dovrebbero concorrere al programma è esplicitamente ispirata all’esperienza del New Deal. Allora la maggior parte delle iniziative di creazione di lavoro venne promossa dal governo federale, ma fu sponsorizzata dai governi locali e da agenzie federali e intrapresa anche da organizzazioni non governative. I programmi vennero modellati sulla base delle esigenze delle comunità e ottennero eccezionali. «Back to Work», alla domanda se non esista il rischio che simili progetti degenerino nella creazione di lavoro assistenziale, risponde che sì. Proprio per questo non bisogna desistere ma essere ancora più rigorosi nella costruzione dei programmi, senza rinunziare a sfidare i critici della creazione diretta di lavoro perché identifichino altre strategie che tuttavia forniscano una combinazione di benefici analogamente espansiva. Ce n’è abbastanza per invocare anche in Italia un Piano straordinario per il lavoro ai giovani, nel cui finanziamento troverebbe la sua piena legittimazione una tassazione patrimoniale.

L’Unità 04.09.11