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"Pregi e difetti dell’Imu", di Marco Causi

In tutti i paesi l’imposta dei comuni è legata al valore delle proprietà immobiliari. Un’imposta reale, basata su oggetti, è più facilmente gestibile da una circoscrizione amministrativa piccola. Mentre altre imposte, come quelle personali o sugli affari, sono più difficili da suddividere territorialmente o hanno basi imponibili più facili da “spostare”.
I comuni influiscono sull’andamento dei valori immobiliari, ad esempio con interventi sulle infrastrutture e sulle reti dei servizi, e l’imposta immobiliare è il modo più efficiente per finanziarne i costi, secondo quello che in scienza delle finanze è chiamato principio del beneficio. L’imposta immobiliare locale era stata introdotta in Italia nel 1992 (Ici). Da sempre è stata un’imposta impopolare e malvista, soprattutto da parte delle correnti politiche più populiste. Forse perché in Italia la percentuale di famiglie proprietarie della casa di abitazione è molto elevata. Forse perché si tratta di un’imposta difficilmente eludibile, al contrario di altre, e perché dotata di una forte progressività: in Italia, dove più del 90 per cento dell’Irpef è pagata da dipendenti e pensionati, che contribuiscono alla formazione del 60 per cento del reddito, la qualità della casa di abitazione, e il suo valore, è l’attributo che approssima meglio la capacità contributiva.
Non a caso il populismo anti-tasse di Berlusconi prese di mira proprio l’Ici durante la campagna elettorale del 2006, aprì un varco anche nel centrosinistra, che durante il governo Prodi 2 la eliminò per quasi la metà delle famiglie proprietarie meno abbienti, per poi concludere il ciclo con la completa abolizione dell’Ici sulla prima casa nel 2008. E ciò è avvenuto nonostante l’ammontare medio dell’Ici prima casa fosse di gran lunga inferiore alle analoghe imposte vigenti in Francia o in Germania (circa 200 euro contro circa 1.500).
La manovra Monti ha introdotto un’imposta patrimoniale immobiliare (Imu) non solo estendendola di nuovo alle prime case, ma anche adeguando la base imponibile con l’incremento dei valori catastali. Il colpo è ammorbidito da un’abbondante detrazione (200 euro, che può arrivare fino a 400 in relazione al numero dei figli). Il gettito dell’Imu sulle prime case affluirà interamente ai comuni, quello proveniente dagli altri immobili (residenziali e non) sarà diviso al 50 per cento fra comuni e stato. L’imposta quindi è solo nominalmente “municipale”, in realtà è in parte erariale.
L’Imu assorbe, oltre all’Ici, l’Irpef sui fabbricati non locati, con un effetto di semplificazione del sistema, così come era previsto dal decreto sul fisco comunale del federalismo fiscale, che però ne posponeva l’entrata in vigore al 2014. In termini di “disegno” del sistema tributario si tratta di una scelta condivisibile e autenticamente federalista.
Il peso delle imposte patrimoniali vedeva l’Italia penultima nelle classifiche Ocse, circa un punto di Pil in meno. Dopo la manovra Monti, che accanto all’Imu contiene altre due imposte patrimoniali (bollo sulle attività finanziarie e tassa sui beni di lusso) per un totale di gettito di circa 15 miliardi, questa anomalia viene eliminata. I comuni avranno di nuovo un loro tributo, quindi l’autonomia negata dal governo Berlusconi-Bossi, che aveva sbandierato il federalismo più a parole che nei fatti.
Tuttavia il governo Monti, incalzato dall’emergenza, non ha avuto il tempo di affrontare numerose questioni, rimaste aperte nel decreto salva-Italia. Il veicolo più appropriato per apportare le necessarie modifiche è un decreto correttivo del federalismo fiscale dedicato alla finanza comunale. È chiaro infatti che il vigente decreto sui comuni va ampiamente rivisto, per tenere conto dell’introduzione dell’Imu. Vanno messi a punto, soprattutto, i fondi perequativi per i comuni, che peraltro il decreto Calderoli lasciava ampiamente indeterminati.
In prima fila c’è il tema della riforma del catasto: il semplice adeguamento automatico è accettabile solo nella logica dell’emergenza, ma non regge al vaglio dell’equità. Poi, esistono disallineamenti fra le banche dati catastali (su cui il governo ha valutato il gettito della nuova imposta) e le banche dati comunali costruite sulle effettive dichiarazioni Ici, e a questi problemi di stima si sommano i tagli vecchi e nuovi ai trasferimenti statali: per i comuni l’Imu è una leva di autonomia, ma i sindaci saranno costretti ad aumentare le aliquote di base (4 per mille sulle prime case, 7,6 per mille sul resto degli immobili) per ottenere parità di risorse.
Sarebbe bene condividere i dati finanziari di base, e sarebbe utile restituire ai comuni margini di manovra per adattare, tramite i loro regolamenti, l’imposta alle diverse caratteristiche sociali e territoriali. Ai comuni dovrebbe essere lasciata la facoltà di disciplinare le assimilabilità a prima casa e, in prospettiva, lo stesso disegno delle detrazioni, su cui sarebbe utile utilizzare l’Isee piuttosto che il grossolano parametro del numero di figli.
Le seconde case a disposizione del proprietario hanno nel nuovo regime minori svantaggi delle seconde case affittate, e questo è discutibile, così come discutibile appare la dimenticanza di un trattamento di favore per le case popolari e sociali di proprietà pubblica.
Non è stata infine affrontata la questione delle esenzioni ai soggetti “no profit” (assistenza, sanità, istruzione, sport, culto, ecc.), su cui ci sarebbe un primo passo da fare: censire il patrimonio nella disponibilità dei soggetti esenti. I quali, appunto poiché esenti, non sempre hanno compilato le dichiarazioni ai fini Ici. L’obbligo di dichiarazione per i soggetti esenti permetterebbe di costruire un’anagrafe di questo patrimonio: un’operazione di verità e di trasparenza che, fra l’altro, contribuirebbe a svelenire una discussione pubblica che, soprattutto in relazione alle proprietà di soggetti riconducibili alla Chiesa, è distorta dall’assenza di dati verificabili.
Sulla base di questa conoscenza si potrà affrontare una discussione serena che ci faccia trovare preparati, di fronte alle eccezioni comunitarie, per una riforma che contemperi l’obiettivo, ineludibile, del sostegno fiscale al “no profit” con l’eliminazione di sussidi distorsivi della concorrenza.

da www.euroaquotidiano.it