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"Una generazione ai margini", di Francesco Barbaro *

Caro direttore,
l’affermazione del viceministro Martone, secondo cui i non laureati a 28 anni sarebbero degli sfigati, ha già raccolto la sua buona parte di riprovazione, dopo la quale non credo ci sia più nulla da aggiungere sul tema del rispetto che dovrebbe essere osservato nei confronti delle parti sociali di un Paese. Ma ecco che, una volta sfogatosi il risentimento generale, qualcuno si alza per sostenere che forse, al di là del modo di esprimersi un pò sfigato, il concetto espresso non era del tutto sbagliato. Su questo punto ciascuno rimarrà della propria opinione: chi si trova a dovere regolare dall’alto un sistema basato sulla competizione, continuerà a pensare che l’unica cosa importante sia essere competitivi; chi si trova a dovere sopravvivere con l’acqua alla gola, non potrà fare altro che prendere fiato e cercare di non affogare. D’altra parte, sono infiniti, e non solo economici, i motivi per cui uno studente possa finire fuori corso di parecchi anni.
Proviamo per un attimo, però, a considerare certi altri ritardi dell’Università, spostando la nostra attenzione dal momento della formazione a quello del lavoro: passando, cioè, da un lato all’altro della cattedra. Alcune delle persone che stimo di più, a 40 o 50 anni, non hanno ancora ricevuto la qualifica di professori e, come semplici ricercatori, accettano di tenere degli insegnamenti che altrimenti rimarrebbero vacanti, senza per questo essere remunerati. Eppure si tratta, nel caso particolare, di persone che nella loro materia sono forse le più esperte d’Italia. Se gli studenti che per loro demerito tardano a laurearsi sono degli sfigati, penso con amarezza a come dovrebbero sentirsi allora questi studiosi (o studiose), laureati ormai da molto tempo e da molto tempo ricercatori, i quali invece vedono tardare un riconoscimento che, almeno a loro, è dovuto.
Volendo fare dello spirito a tutti costi – cosa di cui, anche in piena crisi, né politici né tecnici sembrano poter fare a meno – se le condizioni sono queste, gli studenti consapevoli di andare incontro alla disoccupazione non dovrebbero avere tanta fretta di laurearsi. Dire che sono sfigati, se davvero è una «verità scomoda», è una verità che si ritorce contro l’Istituzione che la «rivela»: lo sfigato è una persona che non riceve considerazione, un perdente destinato a rimanere ai margini e, in effetti, fino ad ora la mia generazione non ha ricevuto considerazione dallo Stato, ed è additata come perdente senza nemmeno la possibilità di essere messa alla prova, e rimarrà ai margini non perché abbia già fallito – c’è sempre tempo per quello – ma perché per lo Stato è solo troppo sfigata.

* neolaureato alla Scuola Normale Superiore di Pisa

da Corriere della Sera