Gli americani, che sanno trasformare i guai in genere cinematografico, lo chiamano worst case scenario: il peggiore degli incubi possibili. Noi, nel nostro piccolo, lo stiamo sperimentando a Taranto. L’Ilva, asse portante della siderurgia nazionale e dunque dell’assetto industriale nostrano, da ieri è senza vertici. Dimissioni collettive, via anche un manager del livello di Enrico Bondi appena insediato per raddrizzare la barca. A rischio almeno 40 mila posti di lavoro, da domani la città dei Due Mari ricomincia a vivere tensioni che una recente sentenza della Consulta e la nascita di un pool di banche finanziatrici parevano avere allentato. E’ l’ultimo effetto del sequestro deciso dalla giudice Todisco contro la Riva Fire, la cassaforte di Emilio Riva e figli: otto miliardi e cento milioni di euro bloccati, cifra sconcertante (beni indispensabili per andare avanti, dicono in azienda preparando il ricorso). Soldi che sarebbero stati sottratti alle bonifiche ambientali e alla sicurezza degli impianti dal 1995 a oggi (cioè anche mentre i vertici Ilva dialogavano col governo Monti ottenendone deroghe e benefici). Certe morti in fabbrica, …