attualità

“La filosofia dell’ombrellone”, di Massimo Adinolfi

A Ferragosto è facile strappare un consenso generale intorno a questa proposizione: sotto il sole agostano, l’ombrellone è un bisogno naturale. Come resistere senza un po’ d’ombra? In realtà, nulla è meno ovvio.
Ci si potrebbe accontentare di un cappellino. Soprattutto si potrebbe contestare che sia na- turale l’esposizione prolungata al sole. Il bisogno dell’ombrellone è insorto d’altronde in una condizione storicamente determinata, quella novecentesca del turismo di massa. «L’ombrellone» di Dino Risi costituisce il documento inoppugnabile di una precisa epoca storica, purtroppo lontana. Esattamente 50 anni dopo il film, nel 2005, il leader dell’Ulivo Romano Prodi ebbe a dire che si augurava un Paese con meno yacht e più ombrelloni, non sospettando che di lì a poco sarebbe venuta meno la scelta: non meno di una cosa e più dell’altra, ma purtroppo meno di entrambe.
Volendo però filosofeggiare non sotto l’ombrellone ma proprio a tal proposito, va detto che sin da quando Platone provò a tracciare i confini di una città «sana», non ancora gonfiata da pretese arbitrarie, è stato difficile indicare la soglia oltre la quale un bisogno naturale si moltiplica in una serie ingiustificata di bisogni artificiali. Dubbi e cavillazioni sono però spazzati via dinanzi ai progressi merceologici: per singolare contraccolpo accade infatti che l’ombrellone appaia senz’altro un «oggetto naturale» a confronto della varietà di fogge artificiali che sono ormai in commercio.
Forse è effetto della crisi: dinanzi ai prezzi di certi stabilimenti, che hanno già l’ombrellone in dotazione e possono solo differenziarne l’utilizzo variando le tariffe (con sdraio e lettino, con due lettini, con tariffa agevolata per metà giornata, ecc.), l’italiano riscopre le poche strisce di spiaggia libera rimaste, e vi scende con il proprio ombrellone: cioè con quale? Da questa rinnovata domanda il nuovo sforzo di differenziazione. Orbene, per «oggetto naturale» si può intendere un oggetto la cui foggia risulti dettata dalle funzioni elementari che deve adempiere. Un ombrellone deve riparare dal sole, dunque avrà un telo mantenuto da stecchi flessibili per resistere al vento, e un palo sufficientemente alto perché l’ombrellone proietti un’ombra sufficientemente ampia. Ma ormai le cose non stanno più così. A cominciare dalle dimensioni dell’oggetto: un tempo gli ombrelloni ave- vano stessa altezza e stessa ampiezza. È un fenomeno degno del famoso studio di David Lewis sulle convenzioni: chi ha deciso quanto dovevano essere alti gli ombrelloni da spiaggia? Nessuno. Eppure, fu subito raggiunto un valore standard di cui hanno dovuto contentarsi tanto i nani quanto gli spilungoni. C’entra sicuramente la standardizzazione degli stili di vita, ma c’entra pure una certa misura dell’ombra da gettare sulla sabbia.
Ormai però in spiaggia le ombre non sono più uguali: neppure quelle. Ci sono ombrelloni più alti e più sottili. Ci sono poi ombrelloni che possono reclinare la loro ampia corolla, mentre prima se ne stavano tutti invariabilmente diritti. Questo minimo clinamen determina nuove possibilità: ombre più lunghe o più corte, a favore di vento o controvento, ovali o circolari. A questo punto, ogni variazione diventa possibile. E non solo nella varietà di colori e nelle fantasie dei teli, con le quali si può dire che l’ombrellone sia nato, ma negli altri interventi ergonomici sulla struttura stessa dell’oggetto.
Il più clamoroso è la rottura rivoluzionaria della linearità del sostegno. Sul mercato ci sono infatti ombrelloni il cui palo è deformato in modo da fungere da maniglia per il trasporto. Anche la punta non è rimasta indenne: per migliorare la penetrazione nella sabbia è possibile applicarle un torciglione di plastica, che la trasforma in un cavaturaccioli, rendendo più agevole l’impianto (e così scompare anche la galanteria del giovanotto nerboruto che aiuta la signorina in bikini, come nel film di Risi).
Si potrebbe continuare (dalle tendine che trasformano l’ombrellone in cabina ai posaceneri applicabili), ma la questione filosofica è posta: dove comincia e dove finisce la natura? Dove la domanda di ombrellone è naturale e dove è invece creata dall’offerta di nuovi modelli? Viviamo in una società di sovraconsumi e non sappiamo più dire di no all’ultima, allettante proposta di mercato, oppure viviamo in un mondo più libero e più vario, dove per fortuna si può scegliere perfino sotto quale ombra riposare?

L’Unità 15.08.13