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“Il dilemma della diplomazia occidentale”, di Pasquale Ferrara*

Sarebbe ingeneroso, oltre che scorretto, imputare quanto accade in Egitto e – nonostante le profonde differenze – in Siria e Tunisia a una mancanza di attenzione del mondo euro-occidentale. Con le rivoluzioni arabe si è innescato in Nord Africa un processo sociale e politico che nessuno sembra davvero in grado di prevedere o controllare. Non lo controllano le piazze, ma non lo controllano nemmeno le piazzeforti.
Quando un esercito interviene con metodi pseudo-militari contro la propria popolazione, è un segno non solo di debolezza, ma anche della mancanza di una strategia di medio-lungo termine, al di là della conservazione del potere. Sarebbe tuttavia altrettanto fuorviante sostenere che la comunità internazionale ha davvero fatto tutto quanto era politicamente in suo potere per sostenere le transizioni con massicce iniezioni di fiducia e apertura di credito. Investire politicamente in Paesi che tentato d trovare una propria strada alla democrazia è sempre rischioso, ma c’è da chiedersi se non sia più rischioso non farlo.
La prudenza se non il sospetto hanno dominato in larga misura l’atteggiamento dell’Occidente nei confronti dei rivolgimenti nel mondo arabo-islamico. È anche vero che tali processi si sono manifestati in un momento critico per le relazioni internazionali, a causa soprattutto della crisi finanziaria in Occidente e delle pesanti conseguenze sul tessuto sociale, economico e politico-istituzionale. C’è poco spazio per le relazioni internazionali se esse sono percepite come una sorta di lusso che non ci si può permettere quando si hanno dinanzi questioni ben più pressanti e cruciali, che in qualche misura mettono a rischio un intero modello di sviluppo.
Tuttavia l’ipotesi della «distrazione» rischia di essere superficiale e di non cogliere il vero nocciolo della questione, che non riguarda solo il mondo arabo-islamico, ma tutte le società in fase di transizione o di consolidamento democratico, o quelle che faticosamente emergono da conflitti interni laceranti.
Molti sono i fattori che rendono l’azione della comunità internazionale in gran parte inefficace rispetto ai conflitti «civili».
La prima ragione risiede nella stessa natura di tali conflitti, molto diversi dalle guerre del passato. Qualche decennio fa, riferendosi alle guerre intestine nei Paesi della ex-Jugoslavia, Mary Kaldor propose il paradigma delle «nuove guerre»: conflitti non più inter-statali, ma crisi interne che ben presto si internazionalizzano, diventando trans-nazionali. Inoltre le «nuove» guerre sono di carattere identitario, non patrimoniale, e pertanto destinate ad essere combattute con maggiore determinazione, con poco spazio per il negoziato.
C’è però un altro motivo che rende inefficace l’intervento politico-diplomatico, e cioè la contraddizione, ormai patente, tra due principi fondanti dell’ordine internazionale, che possiamo sintetizzare facendo riferimento a due documenti internazionali: da una parte, la Carta delle Nazioni Unite, che sancisce il dogma dell’inviolabilità della politica interna, della «giurisdizione domestica» e che fa della sovranità un baluardo contro ogni ingerenza esterna; dall’altro, la Dichiarazione dei diritti umani fondamentali, che invece pone al centro di ogni azione politica internazionale la dignità della persona umana e le libertà individuali.
I tentativi di superare questa imbarazzante dissonanza si sono rivelati sinora di limitata efficacia, nonostante la creazione della Corte penale internazionale e la più recente configurazione di una «responsabilità di proteggere» facente capo proprio alla comunità internazionale.
Tutto ciò riduce notevolmente le possibilità di influenza, a meno che non si pretenda di risolvere ogni crisi interna o internazionale con un intervento militare, più o meno legittimato dalle istituzioni multilaterali.
Realisticamente, e nonostante il sostanziale cambiamento degli equilibri mondiali in corso, esistono solo due attori internazionali in grado di svolgere quanto meno un ruolo di persuasione nella direzione del dialogo e del negoziato, vale a dire l’Unione Europea e gli Stati Uniti. L’Europa, in particolare, dovrebbe finalmente varare un disegno complessivo di stabilizzazione, di sviluppo e di partenariato nel Mediterraneo. Se prima era una scelta, oggi è una necessità.
*Segretario generale Istituto universitario europeo

L’Unità 17.08.13