economia, pari opportunità | diritti

"Disuguaglianza la nostra sfida ", di Massimo D'Antoni

Uno degli effetti del persistere della crisi è l’attenzione crescente per il tema della diseguaglianza. Che l’aumento delle diseguaglianze economiche negli ultimi decenni abbia alimentato la bolla finanziaria che ha portato alla crisi è una tesi ormai ampiamente accettata.

Secondo questa interpretazione, è stato l’impoverimento progressivo della classe media americana a incoraggiare l’indebitamento privato, che ha provocato la crisi e tuttora frena la ripresa. Il tema è particolarmente caldo oltreoceano, come dimostra anche lo straordinario successo del libro Il capitale nel XXI secolo di Thomas Piketty. L’economista francese documenta come i livelli di concentrazione di ricchezza stiano tornando ai livelli estremi raggiunti a fine Ottocento. Sembra essersi dunque interrotta la combinazione di circostanze che ha garantito, nel corso del XX secolo, quel capitalismo del benessere diffuso che siamo abituati a considerare come la condizione normale delle economie avanzate, e che è stata la cornice economica e sociale per lo sviluppo delle democrazie moderne.

Europa e Nord America hanno conosciuto, a partire dalla prima guerra mondiale fino agli anni Settanta, una riduzione delle diseguaglianze sociali e una progressiva perdita di centralità dei patrimoni ereditati. La tesi di Piketty è che questa sia ben lungi dal rappresentare una tendenza spontanea o necessaria del capitalismo. Il rallentamento della crescita economica da un lato e l’aumento dei rendimenti del capitale che ha accompagnato la recente fase di globalizzazione finanziaria dall’altro rischiano infatti di generare processi cumulativi che potrebbero riportarci, nel giro di pochi decenni, a rapporti sociali segnati, come nel passato meno recente, dall’accesso ad una dotazione patrimoniale. Ciò avrebbe conseguenze preoccupanti anche sotto il profilo della tenuta democratica (pensiamo a cosa possa implicare la concentrazione della ricchezza sul piano politico, anche alla luce della recente scelta del nostro Paese di eliminare il finanziamento pubblico dei partiti). La tesi dell’economista francese è dunque particolarmente provocatoria e, al di là delle proposte specifiche, ha il merito di richiamare la sinistra alla necessità di interrogarsi sull’evoluzione di lungo periodo dell’economia capitalistica.

La concentrazione della ricchezza è l’altra faccia dell’impoverimento del ceto medio. L’analisi di Piketty ben si concilia con dati e statistiche che occupano i titoli dei giornali ma sempre meno ci sorprendono: sul calo dei consumi, sull’assottigliamento dei risparmi delle fa- miglie, sulle crescenti situazioni di disagio sociale. Esiste un rimedio? Molte analisi sull’aumento della diseguaglianza puntano l’indice su fattori strutturali, quali la globalizzazione e il progresso tecnologico, che determinerebbero un progressivo divario nelle retribuzioni tra chi sta al passo con le richieste del mercato e chi è penalizzato da competenze di basso livello e quindi più esposte alla concorrenza dei Paesi emergenti. In quest’ottica, la diseguaglianza nei Paesi sviluppati sarebbe un fenomeno difficilmente evitabile, e forse nemmeno così critico, visto che sarebbe il prezzo da pagare per la diffusione della tecnologia e l’ampliamento dei mercati.

Si tratta tuttavia di un punto di vista parziale del problema. Come sottolinea lo stesso Piketty, i processi in atto, al pari dell’evoluzione lungo tutto il XX secolo, sono infatti in misura rilevante l’effetto di precise scelte politiche. Se per un verso la redditività del capitale è stata contenuta da eventi drammatici quali le due Guerre mondiali, dall’altra ha operato in modo determi- nante la tassazione sia dei redditi elevati che dei lasciti ereditari. Nel periodo compreso tra la Seconda guerra mondiale e gli anni Settanta nel Regno Unito e negli Stati Uniti, Paesi che sarebbero diventati la culla del neoliberalismo, le aliquote di imposta sui redditi elevati eccedevano l’80% e in alcuni casi il 90%. Lo scopo di tali imposte non era tanto ottenere gettito quanto fornire un esplicito disincentivo all’accumulo di ricchezza e alla richiesta di salari elevati da parte dei super-manager o altri percettori di redditi alti. È solo nel clima culturale/politico determinatosi a partire dagli anni Ottanta che ha prevalso l’idea che tali imposte «confiscatorie» fossero controproducenti o magari immorali. Non è un caso che tale orientamento politico abbia coinciso con l’inizio di un lungo periodo di aumento incontrollato dei redditi top.

Va detto che politiche fiscali così aggressive sarebbero oggi impedite, prima che da una residua resistenza culturale, dall’integrazione internazionale dei mercati. Sarebbe agevole per un contribuente rispondere con un trasferimento di residenza o spostando i propri capitali all’estero. Per impedire forme di concorrenza fiscale sarebbe necessario un forte coordinamento internazionale; sappiamo quanto sia difficile, ma governi di orientamento progressista dovrebbero porre la questione, per lo meno a livello europeo.

Tali coraggiose misure sono tuttavia solo una parte della risposta necessaria. Lo scorso ventennio dovrebbe averci ormai convinti non solo del fatto che il mercato non regolato, lungi dal ridurle, tende ad acuire le diseguaglianze, ma anche del fatto che a far difetto è lo schema per il quale prima si fa funzionare il mercato e solo dopo ci si preoccupa di redistribuirne i frutti. L’idea di coniugare il massimo di liberalizzazione con appropriate politiche di correzione ex post degli effetti peggiori di un’economia non regolata, molto in voga negli anni Novanta presso i sostenitori della «terza via», si scontra con il fatto che, una volta create e legittimate le diseguaglianze, è difficile trovare le risorse di consenso politico necessarie a correggerle. Allo stesso modo in cui, una volta creato un welfare per i poveri, è difficile convincere i ricchi dell’opportunità di garantirne il finanziamento.

È per questa ragione che proprio in Paesi come il Regno Unito sta prendendo piede l’idea che occorra operare sugli stessi meccanismi di mercato, regolando i processi di creazione di ricchezza invece di puntare a correggerne gli effetti a posteriori: il termine in voga è «pre-distribution». A pensarci, non è poi un’idea nuova. È anzi il cuore del modello sociale europeo: è l’idea che alcuni beni primari vadano forniti al di fuori della logica di mercato, e che la compressione retributiva derivante dalla regolamentazione del mercato del lavoro, lungi dall’essere la radice dei nostri problemi, è invece una delle condizioni per un capitalismo equilibrato.

da L’Unità