attualità, politica italiana

"Piuttosto della crisi meglio la secessione", di Ilvo Diamanti

Umberto Bossi, ieri, a Venezia ha concluso la manifestazione che, da 15 anni, celebra la secessione padana. Il mito che mobilita e fornisce identità alla Lega e ai suoi militanti. L´ha fatto invocandola, puntualmente. La secessione. Unica via di uscita per una democrazia in pericolo. Dove, anzi, “il fascismo è tornato con altri nomi e altre facce”. Parole sorprendenti, in bocca al ministro delle Riforme istituzionali per il Federalismo.
al leader di un partito che governa da 10 anni, salvo una breve pausa – meno di due anni. La “Lega di governo”, ben insediata a Roma. Soggetto forte della maggioranza e alleato affidabile di Berlusconi, anche in tempi cupi come questi. Bossi torna ad agitare lo spettro della secessione, per via democratica. Attraverso un referendum. Ma abbiamo motivo di dubitare che alle parole seguiranno fatti concreti. Che davvero la Lega possa e voglia perseguire la secessione – seppure per via democratica.
In primo luogo, perché rischierebbe di trovarsi da sola, con poche persone al seguito. Come avvenne nel settembre del 1996, quando la marcia per l´indipendenza padana, promossa dalla Lega, andò largamente deserta. Poche decine di migliaia di militanti. Un po´ pochi per marcare il “confine naturale” del Nord padano. D´altronde, basta ragionare sui dati elettorali (come ha fatto ieri Francesco Jori su Il Piccolo e su altri quotidiani del Nord). Nel 1996, quando la Lega raggiunse il risultato più ampio fino ad oggi, nelle regioni del Nord padano si fermò, comunque, al 23%. Nel 2008 al 19%. Alle Regionali del 2010 nel Lombardo-Veneto, dove è più forte e radicata, si è attestata al 30% (dei voti validi. Cioè, molto meno se si considera la popolazione intera). In ogni caso: una “larga minoranza” dei cittadini del Nord – e pure del Lombardo-Veneto. Tuttavia, ricondurre “tutti” gli elettori leghisti al verbo secessionista è improprio e, anzi, largamente sbagliato. Basti pensare a quel che avvenne dopo il 1996, quando la Lega, da sola, proseguì nel progetto indipendentista. Riducendosi a poco più del 3% alle Europee del 1999. Ciò che la indusse a rientrare a casa. Meglio: nella Casa delle Libertà. Accanto a Berlusconi. D´altronde, ancora nel 2006, la Lega raggiungeva appena il 4% in Italia, ma restava di poco sotto al 10% nel Nord. Il fatto è che il successo della Lega dipende da ragioni che poco hanno a che fare con la secessione. Come dimostrano numerosi sondaggi condotti sull´argomento. In un´indagine recente (Atlante Politico di Demos, giugno 2011), la quota di elettori che si dice d´accordo con l´affermazione: “Il Nord e il Sud dovrebbero dividersi e andare ciascuno per conto suo” è del 12% in Italia, sale al 14% nel Nord Ovest e al 26% nelle regioni del Nord Est (esclusa l´Emilia Romagna, altrimenti il dato medio si abbasserebbe). Fra gli elettori leghisti risulta elevata: intorno al 40%. Cioè, di nuovo, una “larga minoranza”. Che resta, però, minoranza. Per contro, l´85% degli elettori del Nord padano e oltre il 70% di quelli leghisti considerano l´Unità d´Italia una conquista “molto o abbastanza positiva” (Demos per Limes, marzo 2011). Mentre oltre l´80% degli elettori del Nord (padano) e della Lega si sentono “orgogliosi di essere italiani”. Infine, più di otto persone su dieci, tra gli italiani ma anche fra gli elettori del Nord, ritengono che fra 10 anni l´Italia sarà ancora unita. E fra i leghisti questa convinzione appare solo un po´ meno diffusa: 77%.
Insomma, la “via democratica alla secessione” non porterebbe lontano la Lega. Perché non piace al Nord ma neppure alla maggioranza degli elettori leghisti, che si sentono molto più italiani che padani. Allora perché Bossi continua a richiamarla, come un mantra?
Anzitutto, per contrastare il malessere dei suoi elettori. I più fedeli e, a maggior ragione, quelli “tattici”, molto numerosi nelle aree economicamente più dinamiche. I quali la votano per manifestare contro Roma e il Sud. Contro l´inefficienza dello Stato e la pressione fiscale, troppo alta. Contro i privilegi della casta e del sistema politico. “Romano”. La usano, cioè, come una sorta di sindacalista del Nord. Che oggi, però, rischia di risultare inefficace. Altri dati di sondaggi recenti (Demos, settembre 2011) dicono, esplicitamente, che la manovra finanziaria del governo non piace né al Nord (circa 70% di giudizi negativi e 23% positivi) né ai leghisti (49% di giudizi negativi e 42% positivi). Agli elettori leghisti, in particolare, non piace Berlusconi, grande alleato della Lega e di Bossi. Solo un terzo di essi ne valuta l´operato con un voto “sufficiente”.
Insomma, la “Lega di governo” è in difficoltà di fronte al suo elettorato, fedele e “tattico”. Cerca, per questo, di riproporre le parole d´ordine della “Lega di protesta”. E secessionista. Anche se fa specie che sia il Ministro delle Riforme istituzionali a presentarsi come portabandiera dell´opposizione.
Ma il leader della Lega agita la minaccia secessionista anche per sopire le divisioni che attraversano i dirigenti del suo partito. Coinvolti, com´è stato osservato, assai più che dalla “secessione”, dal tema della “successione”. Che vede in Roberto Maroni il candidato più accreditato. Ma anche il più osteggiato. Esempio più evidente e recente di queste tensioni: il servizio appena pubblicato da Panorama, dove si accusa la moglie di Bossi di “guidare” il partito insieme a un “cerchio” ristretto di uomini fedeli al Senatur. Raccoglie voci note da tempo. Con la differenza – e la novità – che a rilanciarle è un periodico della galassia editoriale di Berlusconi. Il che suggerisce quanto le tensioni siano, ormai, ineludibili. Indifferibili. Nella Lega e nel Centrodestra.
Da ciò, l´ultima spiegazione. La Secessione, come la Padania, è un mito fondativo, una sorta di orizzonte proiettato lontano nel tempo. Mentre la manovra finanziaria, che appare a 8 italiani su 10 inaccettabile, è reale. Attuale. Come il crollo di consensi che ha travolto il governo e, anzitutto, il Presidente del Consiglio.
La Lega e Bossi, in primo luogo, potrebbero staccare la spina. Se volessero fare Lega d´opposizione. Proporre altri candidati premier. Oppure nuove elezioni (com´è avvenuto in Spagna). In questo caso, però, dovrebbero rinunciare alla posizione dominante che il Carroccio occupa nel governo e in molte amministrazioni. Rischiare l´emarginazione, come dopo il 1996. Ma, soprattutto, se Berlusconi uscisse di scena, Bossi potrebbe seguirne la sorte. E senza Bossi nella Lega si aprirebbe una guerra di successione. Dall´esito incerto. Anche per la Lega, di cui Bossi costituisce tuttora l´Icona Unificante. Per cui sempre meglio minacciare e poi rinviare. La crisi di governo, le elezioni. Meglio, tanto meglio, invocare la Secessione. La Padania. Ma più in là. Domani è un altro giorno. Si vedrà.

La Repubblica 19.08.11

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“La freddezza del Quirinale garante dell’unità d’Italia”, di Marzio Breda

«Quando finiscono i soldi le cose cambiano». Così dice Umberto Bossi, da Venezia, agitando lo spettro della secessione (da ottenere, concede, «per via democratica, attraverso un referendum per la Padania»). È una svolta, dopo qualche tempo di moderazione in doppiopetto, e il leader leghista la associa alle difficoltà dell’economia. Cioè a quella crisi tra le cui possibili ricadute il capo dello Stato ha da tempo indicato rischi per la stessa coesione nazionale.
Insomma: Giorgio Napolitano aveva messo nel conto che le prove imposteci dalle cadute dei mercati avrebbero potuto sfociare in «impulsi disgregativi» come questo, e infatti ne aveva parlato fin dal 7 gennaio scorso, mentre inaugurava a Reggio Emilia le cerimonie per i 150 anni dell’unità d’Italia. Ma, in una stagione nella quale il sistema è già sotto stress per la tenuta del governo (per problemi interni oltre che per il susseguirsi di manovre finanziarie sempre più dure), con la questione giudiziaria del premier che s’intreccia con una più vasta questione morale, ha ritenuto di non intervenire su un altro potenziale fronte di conflitto. Almeno non subito. Di sicuro non a caldo.
Si spiega così il silenzio del Quirinale, ieri, dopo il nuovo scatto in avanti (che in realtà è un ritorno alle origini) del gran capo lumbard.
Il freddo silenzio di chi non sottovaluta la provocazione, tanto più che a lanciarla è un ministro della Repubblica, ma neppure intende esasperarla. Forse anche perché quella sortita è stata un po’ mitigata dai più potabili proclami di alcuni colonnelli leghisti, come l’incitazione a «combattere per il federalismo dentro le istituzioni» espressa da uno striscione dei fedeli a Maroni.
Certo, per il capo dello Stato dev’essere deprimente constatare quanto poco abbiano pesato le sue aperture di credito alla Lega degli anni scorsi, incitando la politica a «dare compimento all’evoluzione del federalismo» e delle autonomie previste dalla nostra Magna Charta. Un sostegno che gli è valso una lunga tregua dal partito del Nord. In qualche caso erano scattate addirittura manifestazioni di esplicito feeling, come con il sindaco di Verona, Flavio Tosi, o con il ministro Roberto Calderoli.
Appoggio che si è concretamente materializzato durante il suo tour attraverso l’Italia per il Giubileo della Nazione. Durante il quale, a parte isolati dispettucci, Napolitano si è ritrovato spesso affiancato dai rappresentanti padani, ed è successo perfino a Bergamo e Varese.
La politica può talvolta richiedere il gioco duro, come quello scelto da Bossi. Il presidente, che ha una lunga esperienza parlamentare alle spalle, lo sa. Tuttavia, la spregiudicatezza, anche quando fosse motivata, non è mai compatibile con i principi.
Bastano i suoi recenti richiami da «rappresentante dell’unità nazionale», a ricordarlo. L’altro ieri, da Bucarest, ha chiesto a tutti di essere «responsabili e all’altezza della situazione» e di cercare «nuove ragioni per stare uniti». Mentre una settimana prima aveva ammonito che uno sviluppo serio lo si ha solo se «si cresce insieme, Nord e Sud».
Il campanello d’allarme suonato ieri da Venezia è comunque l’ultimo di una serie assillante di questi giorni, per Napolitano. Tutti concentrati sulle sorti del premier. Qualcuno invoca un suo intervento risolutore, magari attraverso un messaggio alle Camere. Ma se è vero che l’istituto del messaggio non ha limitazioni di contenuto (non per nulla in dottrina lo si definisce «libero», e in ciò si distingue dai messaggi di rinvio di una legge), è altrettanto vero che in una fase come quella attuale e con un esecutivo che ha appena ottenuto un voto di fiducia, il capo dello Stato non può fare nulla. Pretendere che si rivolga al Parlamento perché metta in minoranza il governo, equivale a chiedergli di fare quasi un colpo di Stato.

Il Corriere della Sera 19.09.11