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“Il Pd e la sfida dei voti a Nord Est”, di Roberto D’Alimonte

Durante tutta la storia della Seconda Repubblica una sola volta la sinistra italiana ha avuto più voti della destra: nelle elezioni politiche del 2006 alla Camera (al Senato anche in quella occasione la destra prese di più), ma la coalizione dell’Unione con cui Prodi vinse per 24mila voti quelle elezioni non era solo sinistra. Era sinistra più pezzi di destra traghettati a sinistra nel 1995 (Dini) e nel 1998 (Mastella). Quando questi pezzi di destra sono tornati a destra (autunno del 2008) il governo Prodi è caduto e la sinistra è tornata a essere quello che è sempre stata nella storia del paese: una minoranza e per di più divisa. Con problemi di identità profonda, come ha riconosciuto ieri alla festa di Genova lo stesso segretario del Pd, Dario Franceschini.

La sinistra italiana ha meno consensi della destra. Questa è la prima ragione della sua debolezza. Il suo maggior partito, il Pds poi Ds, non è mai andato oltre il 21,1% dei voti (1996). Le formazioni politiche confluite nell’attuale Pd, e cioè Pds, Ds, Popolari, Margherita, messe insieme hanno ottenuto al massimo il 33,2% (il Pd nel 2006). A livello di elezioni politiche tutta la sinistra italiana non ha mai superato il 50% dei voti. Delle quattro aree politiche in cui tradizionalmente si divide l’Italia (Nord-Ovest, Nord-Est, Centro e Sud) il Pd è una forza maggioritaria solo nel Centro e cioè Emilia Romagna, Toscana, Marche, Umbria. Nel Nord-Ovest e nel Sud i suoi consensi sono intorno alla media nazionale (si veda il grafico a pagina 14). Nel Nord-Est, e in particolare in Lombardia e in Veneto, sono nettamente sotto. Da sempre questa è l’area di maggiore debolezza.

Qui il Pd, e i suoi predecessori, non hanno mai superato il 28% dei voti e tutta la sinistra non è mai arrivata al 40 per cento. In Lombardia e Veneto nel 2008 la coalizione di Veltroni (Pd + Idv) ha preso rispettivamente il 32,1% e il 30,8% contro il 55,2% e il 54,4% della coalizione di Berlusconi (Pdl + Lega). Dato che il Nord-Est rappresenta il 29% dell’elettorato italiano contro il 18% delle quattro regioni del Centro la supremazia del Pd in questa area non può compensare la sua debolezza nell’altra.

Ma se il Pd non riesce ad accrescere in maniera significativa i suoi consensi nel Nord-Est dove può trovare i voti che gli servono per vincere? È difficile che possa fare meglio di quello che fa oggi nelle regioni del Centro dove in media ha sempre raccolto oltre il 40% dei voti. Può migliorare in Piemonte e Liguria ma sono regioni che pesano relativamente poco e in ogni caso in Piemonte deve fare i conti con una destra forte soprattutto al di fuori di Torino e provincia. Resta il Sud. Solo un grandissimo successo al Sud potrebbe compensare la debolezza al Nord. È il Sud che ha fatto vincere Prodi nel 2006. Ma al Sud le radici del riformismo sia di matrice socialista che cattolica sono fragili. Il voto è mobile, “governativo” e clientelare. Un eventuale grande successo della sinistra al Sud, senza che questo sia il risultato di una vittoria anche al Nord, rischia di allargare il divario tra le due aree del Paese, tra i ceti produttivi del Nord e il Pd. La conclusione quindi è che la questione settentrionale, e in particolare quella lomabardo-veneta, è una questione centrale per il Pd. Non può essere semplicemente rimossa con l’alibi di una insormontabile barriera culturale come se gli elettori in questa zona fossero dei marziani. Le vittorie a livello locale di tanti esponenti del Pd dimostrano che a certe condizioni la sinistra può vincere anche qui.

Al fondo della debolezza elettorale del Pd sta la ristrettezza della sua base sociale. Il Pd è soprattutto il partito dei lavoratori dipendenti, e in particolare di quelli pubblici. Secondo i dati di Itanes 2008 gli impiegati rappresentano il 40% del suo elettorato contro il 25% degli operai (esattamente la stessa percentuale della Lega) e il 17% dei lavoratori autonomi. Tra questi ultimi solo il 24% ha votato Pd alle ultime elezioni contro il 43% che ha scelto il Pdl e l’11% la Lega. Tra gli operai il 36% ha votato Pd, il 34% Pdl e l’11% Lega. Nemmeno tra i disoccupati il Pd è risultato il partito più votato: il 49% ha preferito il Pdl e solo il 27% il Pd.
Questi dati sono molto simili a quelli di un sondaggio fatto da questo giornale prima delle elezioni europee di quest’anno (3 maggio). Nella categoria dei lavoratori di basso profilo (operai-esecutivi) il 43% dichiarò che avrebbe votato per il Pdl e solo il 22% per il Pd. Nel complesso il Pd è molto meno partito interclassista del Pdl. È soprattutto il partito della classe media impiegatizia. Con questo profilo non può assolutamente sperare di battere la destra di oggi.

Sulla carta il Pd che aveva in mente Veltroni era nato per superare i limiti della sinistra italiana. L’obiettivo era ambizioso: farne un partito maggioritario a livello nazionale e non solo in quattro regioni del Centro. Questo era il senso della tanto irrisa “vocazione maggioritaria”. Il discorso del Lingotto fu un importante punto di partenza. Il buon risultato elettorale delle politiche 2008 è stato un altro tassello. Poi tutto si è sfilacciato. Litigiosità e divisioni hanno divorato l’ennesimo leader e riproposto la contrapposizione tra una sinistra divisa e “anarchica” e una destra unita e con un leader indiscusso. La crisi economica ha fatto il resto. Invece di indebolire Berlusconi ne ha rafforzato l’immagine di “uomo forte” in grado di proteggere gli italiani non solo dalle insicurezze legate alla criminalità e alla immigrazione ma anche da quelle legate al cattivo andamento dell’economia (si veda il Sole 24 ore del 18 agosto). Intanto il Pd è ancora in cerca di una identità, di una strategia politica e soprattutto di un leader. Il 25 ottobre si vota alle primarie. Sarà la volta buona?

Il Sole 24Ore, 25 agosto 2009