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“Lodo Alfano un’ipotesi paradossale”, di Stefano Passigli

Ideato per rispondere all’esigenza tutta politica di «scudare» Silvio Berlusconi dal processo Mills, era forse inevitabile che, approssimandosi il giudizio della Corte Costituzionale, il Lodo Alfano tornasse a dar vita a un vivace scontro politico. Del tutto improprio ed evitabile era invece mescolare logica giuridica e considerazioni politiche come ha fatto la memoria dell’Avvocatura, assumendo di conseguenza l’aspetto di una indebita pressione sulla Corte. Distinguiamo dunque tra valutazioni giuridiche e giudizi politici e, lasciando questi alla coscienza di ciascuno, esaminiamo l’oggetto su cui la Consulta dovrà pronunciarsi.
Il Lodo Alfano nasce dai tre profili di incostituzionalità rilevati dalla Corte nel precedente Lodo Schifani, a sua volta erede della proposta Maccanico: una violazione del diritto alla difesa di quel Capo di Stato, presidente del Consiglio o delle Camere che volesse vedersi giudicato e assolto; una lesione del diritto della parte offesa a essere risarcita dei danni morali e materiali subiti; e, infine, una violazione del principio costituzionale di eguaglianza.

Il principio di eguaglianza
I primi due profili appaiono ai più tra i giuristi essere stati sanati dalla nuova formulazione del Lodo. Non così la violazione del principio di eguaglianza, da intendersi – si badi bene – non come eguaglianza tra i titolari delle massime cariche dello Stato e i cittadini, ma eguaglianza tra chi ha parità di status. Introdurre nella giustizia penale un trattamento privilegiato per chi ricopre particolari cariche istituzionali può ripugnare alla coscienza democratica e apparire anacronistico (e infatti un’immunità – anche solo temporanea – dal giudizio penale non esiste per alcun capo di governo di una democrazia, ma solo per la Regina d’Inghilterra, il Re di Spagna, e per il presidente francese quale Capo di Stato e non per le sue funzioni di governo) ma non contrasta necessariamente con il principio di eguaglianza. Quest’ultimo infatti impone che una norma si applichi in egual maniera a chiunque abbia eguale status, ma non preclude che norme diverse si applichino a chi ha status diversi.
Nel caso del Lodo Alfano, che al Presidente della Repubblica si applichi una norma diversa da quella applicabile agli altri cittadini può giustificarsi (ripeto: dal punto di vista della logica giuridica e non della teoria democratica) per l’unicità delle sue funzioni, ma è dubbio che ciò possa estendersi ai presidenti delle Camere (il cui status è diverso da quello degli altri rappresentanti solo per le funzioni svolte all’interno delle istituzioni parlamentari), ed è sicuramente non estensibile al presidente del Consiglio.

Il giudizio della Consulta
Nel nostro ordinamento, infatti, il cosiddetto «premier» resta formalmente, malgrado i recenti sviluppi della costituzione materiale, un primus inter pares all’interno di un Consiglio dei ministri che è organo collegiale. Il giudizio della Corte è dunque tutt’altro che scontato e vi sono ampi margini per una pronuncia di illegittimità.
Quali ne sarebbero in tal caso le conseguenze? Non credo quelle ad arte paventate dall’Avvocatura. All’indomani di un giudizio negativo della Corte, il premier potrebbe infatti forzare il governo e la sua docile maggioranza parlamentare (docile perché da lui stesso nominata grazie alla legge Calderoli) a estendere a tutti i ministri l’immunità prevista dal Lodo a suo favore, e – se reso necessario dalla sentenza – quella dei presidenti delle Camere a tutti i parlamentari, così reintroducendo rafforzata quell’immunità parlamentare cacciata a furor di popolo soltanto quindici anni fa. Paradossalmente, potremmo insomma assistere a un effetto opposto a quello auspicato dagli oppositori del Lodo. Ma come reagirebbe la pubblica opinione a una simile manovra elusiva di una sentenza? E alla luce delle crescenti tensioni nel PdL, esisterebbe ancora una maggioranza disposta a vararla? E ancora: i cittadini verrebbero informati a sufficienza dai media? Come si può vedere, il tema del conflitto di interessi resta attuale. E il tema di una riforma elettorale che restituisca autonomia al Parlamento sempre più urgente.

La Stampa, 28 settembre 2009