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"Il ricatto del quieto vivere", di Francesco La Licata

La Procura Generale, nell’ambito di un distretto giudiziario, è l’ufficio della più alta carica dei magistrati che esercitano la pubblica accusa. Chi ha messo, dunque, la bomba a Reggio Calabria ha inteso colpire l’ufficio giudiziario più importante del capoluogo della Calabria. Il particolare non è irrilevante, visto che l’esplosivo mafioso – a giudizio dei più – voleva essere più che altro un messaggio alla controparte della ‘ndrangheta. È scontato, infatti, che i mandanti dei due motociclisti con casco integrale non avevano – per fortuna – alcuna intenzione di far male. No, volevano soltanto «comunicare», col linguaggio congeniale alle cosche, il proprio malcontento per come si sono messe le cose a Reggio Calabria e in provincia. Altrimenti non avrebbero scelto le prime ore di una domenica di festa, quando le strade sono ancora vuote e gli uffici deserti.

Già, ma come si sono messe le cose ultimamente per i signori del territorio? Non bene, a giudicare dal numero dei latitanti catturati, dei beni sequestrati e della quantità di cocaina sottratta ai narcotrafficanti. Non passa settimana senza che si registri un qualche successo delle forze dell’ordine e dei magistrati. E di recente ci si è messa pure la Procura generale riuscendo a ribaltare in Appello qualche sentenza che era stata generosa nel giudizio di primo grado. Insomma la Calabria sembra voler dare una svolta, rispetto alla tradizionale immagine di terra poco incline alla battaglia antimafia. C’è tutta una letteratura che racconta le difficoltà investigative insite in un microcosmo fortemente condizionato dall’ambiente.

Si è detto tante volte che la realtà calabrese, in qualche modo, rispecchia la condizione in cui versava la Sicilia alcuni decenni fa. Ecco, sul tema della lotta alla mafia, forse questa considerazione non è proprio campata in aria. La ‘ndrangheta ha potuto godere di maggiore libertà d’azione, un po’ grazie al suo stesso humus, un po’ per aver scelto strategie di «basso profilo» che l’hanno in parte sottratta ai riflettori della comunicazione.

Ma era così anche in Sicilia, prima delle stragi, prima di Falcone e Borsellino e della mattanza corleonese, quando una società attenta solo al proprio quieto vivere produceva strumenti di contrasto spuntati e poco efficaci. Un impasto di politica compiacente e di borghesia collusa depotenziava i palazzi della repressione giudiziaria, spesso fino a contaminarli. L’eccesso di violenza svelò l’inganno nascosto nella scelta dell’immobilismo prudente: ma la rivelazione non fu indolore, basta scorrere la lista delle vittime della violenza mafiosa.

Perciò non è consigliabile sottovalutare il messaggio lasciato davanti alla Procura generale di Reggio. Per ora i boss hanno scelto la comunicazione rumorosa ma non mortale. Per ora. Ma chi può garantire per il futuro? C’è una trappola già predisposta: se il «botto» di domenica, scelto secondo la tradizione minimalista tanto cara alla ’ndrangheta, provocherà una deviazione verso il «ragionevole quieto vivere», soprattutto nelle istituzioni, allora avranno vinto ancora loro.
La Stampa 04.01.10

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