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"Primarie in Puglia e Lazio altrimenti si snatura il Pd", di Federico Geremicca

Parla Rosy Bindi: «Non si può rompere con Vendola perchè lo chiede Casini». Lei però mi deve concedere due brevissime premesse, altrimenti il rischio è che lo spirito di questa nostra intervista venga del tutto frainteso». Rosy Bindi è a casa sua, a Sinalunga: e visto che lo chiede, cominciamo appunto con le premesse. «La prima: il Pd sta molto meglio di quanto sembri leggendo i giornali, e anche le elezioni regionali andranno meglio di quel che qualcuno ipotizza. La seconda: io non sono una che brontola, sono il presidente dell’Assemblea nazionale del Pd e dunque quel che le dirò non è una critica ad alcuno quanto, piuttosto, un contributo a fare le scelte giuste e magari a correggerne qualcuna già compiuta. Bisogna sapere che non abbiamo molto tempo: e che dalle prossime 36 ore dipendono molte più cose di quel che si possa immaginare…».

Queste le premesse: che non bastano, però, ad addolcire l’impatto di un ragionamento rigoroso e severo. Del resto, il quadro è quello che è. La vicenda che sta dilaniando il Pd pugliese, quella della candidatura di Emma Bonino nel Lazio, le primarie mandate in soffitta quasi ovunque, un eccesso di accondiscendenza verso l’Udc, la rottura con Vendola e con la sinistra… Un arcipelago di scelte – o non scelte – che stanno facendo fibrillare i democratici e che spingono Rosy Bindi a lanciare il suo allarme: «Rischiamo di snaturare il Pd. Se ci sono degli equivoci, meglio chiarirli subito».

Cominciamo a chiarirli, allora.
«Per esempio: vedo che Casini, in queste ore concitate, si permette di entrare nel merito della nostra discussione per dire che c’è chi, utilizzando le elezioni regionali e i problemi ancora aperti su alleanze politiche e primarie, starebbe tentando di ribaltare il risultato congressuale. Mi permetto di obiettare: le cose non stanno così».

E come stanno?
«Noi in congresso abbiamo detto due cose molto chiare. La prima è che avremmo lavorato per allargare il centrosinistra. Ma appunto allargare il centrosinistra: e non limitarsi a tentare di fare intese con l’Udc scaricando, magari, chi non è gradito a Casini. Non a caso il compito che si è assunto Bersani è trovare una nuova sintesi tra i nostri alleati tradizionali e il centro».

Ci dica la seconda cosa chiara.
«Tra noi c’è stato un dibattito su come scegliere il segretario del partito, se con le primarie oppure no: ma non ci sono mai stati dubbi sul fatto che avremmo fatto elezioni primarie – e primarie di coalizione – per scegliere i nostri candidati alle cariche monocratiche. Questi sono due punti fermi del congresso. E io penso che la capacità di Bersani e del gruppo dirigente, cioè di tutti noi, debba essere appunto quella di tenere insieme queste due scelte».

Ammetterà però che quel che sta accadendo in Puglia – e in parte anche nel Lazio – va in direzione del tutto opposta.
«C’è assolutamente tempo per rimediare. Vendola ha le sue responsabilità, e lo dice una che è stata addirittura definita vendoliana. Ma non è pensabile immaginare di vincere in Puglia – o di considerarlo un laboratorio politico – rompendo con la sinistra di Vendola che ha fatto una scissione da Rifondazione comunista. Non ce lo possiamo permettere. E la strada per uscirne è una sola: sono le primarie».

Il Pd però ha scelto Boccia. Anche se, in verità, non si capisce nemmeno chi, dove e quando lo ha scelto…
«In una riunione a Roma è stato indicato Boccia? C’è un unico modo perché diventi il candidato anche di Vendola: che vinca le primarie contro di lui. Facciamole, e non per litigare: ma perché questa è la strada maestra. Quando non ci sono candidature unitarie il Pd fa le primarie e le fa di coalizione. E Boccia non può dire che così salta la coalizione…».

Può anche non dirlo, ma Casini davvero non ci sta a fare le primarie.
«Casini dimostrerà la sua forza facendo vincere Boccia alle primarie. Sia chiaro, occorre aprire all’Udc: ma va fatto con la lucidità di chi ha in testa una strategia politica per il futuro. Casini non può dirci, per esempio, che non farà mai il capo di un centrosinistra simile a quello che ha guidato Prodi, perché nessuno glielo ha chiesto e perché non accetto nemmeno da un possibile alleato che venga liquidata la nostra storia politica e il legame tra il Pd e Prodi. Comunque, ripeto: nessuno gli ha chiesto di fare il capo del centrosinistra».

Però magari qualcuno ci pensa, no?
«Io resto convinta che Casini sarà un ottimo capo del centrodestra liberato da Berlusconi: e vorrei che quel giorno, quando avremo di fronte un centrodestra migliore di quello che abbiamo oggi, il Pd sia così forte da batterlo».

Quindi, primarie.
«Non c’è altra strada. Casini è alleato fondamentale in questa fase, ma noi non possiamo permetterci di rompere con tutta la sinistra. E credo che nemmeno all’Udc convenga allearsi con noi per perdere».

E nel Lazio? La convince la candidatura di Emma Bonino?
«E’ inutile che stia a ridire della mia stima per Emma, ma alcune considerazioni vanno fatte. Quella, per esempio, che sostenere la Bonino nel Lazio, dunque a Roma, non è una scelta scontata per un partito come il nostro. La decisione è stata presa in modo frettoloso e con una motivazione poco convincente: o scende in campo un leader nazionale o si sostiene Emma, che all’inizio si era candidata contro il Pdl e il Pd. So che nel Lazio c’è una situazione difficile: ma so anche che vi sono autorevoli leader regionali capaci di competere, e che la Polverini non è imbattibile».

E dunque?
«Io propongo di andare a elezioni primarie, perché se il Pd dovrà sostenere Emma Bonino è giusto che la scelga in un confronto aperto: altrimenti tutto sembrerà un modo, perfino troppo evidente, per permettere a Casini di sostenere la Polverini. Del resto, sull’uso delle primarie – e sul progetto politico – la mozione Bersani era così chiara da aver ricevuto il voto di quasi tutti gli ulivisti: fare del Pd la forza centrale del centrosinistra. La forza centrale, appunto: e non un partito di sinistra ancora con la sindrome di esser figlio di un dio minore e alla perenne ricerca di qualche alleato moderato che lo legittimi a governare
La Stampa 09.01.10

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Pd, partito a vocazione confusa, di LUIGI LA SPINA

A questo punto, la domanda è una sola: il Pd è un partito ingovernato o è un partito ingovernabile? L’intervista alla Bindi su «La Stampa» di ieri è solo l’ultima testimonianza di una serie di contraddizioni, confusioni, incertezze veramente sbalorditive per un gruppo dirigente che, tra l’altro, si ritiene la classe politica più professionale e sperimentata d’Italia.

Non si può pensare, perciò, che sia l’ingenuità e l’inesperienza degli uomini, di volta in volta alla guida di quel partito, il motivo di una costante incapacità di tenere una linea politica coerente e credibile. La conclusione obbligata, allora, anche se amara per tutto il sistema democratico del nostro Paese che avrebbe sempre bisogno di una potenziale alternativa di governo, è che il Pd è ingovernabile perché non ha una identità comune, cioè, non è un partito.

Cominciamo dall’inizio. Il candidato alla prima segreteria, Walter Veltroni, al Lingotto di Torino, nel giugno 2007, pronuncia un discorso molto apprezzato, promettendo l’azzeramento di tutti gli spezzoni eredi dei partiti della prima Repubblica e la fusione in una classe dirigente nuova, costruita essenzialmente dalla partecipazione di quella società civile che crede in un moderno progetto riformista. Lancia l’idea, forse velleitaria e discutibile, ma affascinante, di un partito a vocazione maggioritaria, cioè che non debba subire i condizionamenti decisivi degli alleati nel governo del Paese. La sua pratica, però, contraddice subito le sue intenzioni: costruisce un’assemblea costituente fatta proprio di spezzoni dei vecchi partiti e presenta alle elezioni una coalizione che esclude un pezzo importante del riformismo italiano, il Partito radicale, e include un partito che non ne fa parte, quello di Di Pietro.

Il risultato di questa azzardata sfida a Berlusconi è una sconfitta, ma non solo onorevole: è quasi una mezza vittoria, infatti, perché raggiunge per il suo partito una percentuale di voti insperata e sulla quale si potrebbe costruire un futuro promettente. Invece, pochi mesi dopo, è costretto alle dimissioni.

Arriva alla segreteria provvisoria Dario Franceschini, per un breve interregno contrassegnato da un accentuato antiberlusconismo. Ma il congresso, nell’ottobre 2009, elegge il suo competitore interno, Pier Luigi Bersani, e l’alleata di corrente, Rosy Bindi, diventa presidente. Il nuovo leader ripudia il partito a vocazione maggioritaria di veltroniana memoria, stabilisce la necessità di alleanze con esponenti del centro moderato e la regola, quando nello schieramento di centrosinistra ci fossero le condizioni di candidati alternativi su programmi diversi, di risolvere i contrasti con il metodo delle primarie.

Passano solo due mesi e la confusione, nel Pd, è assoluta. In Puglia si verifica il caso più classico dell’opportunità di primarie: due candidati, con due ipotesi di alleanze diverse. Ma Bersani stabilisce di non farle, perché l’eventuale vittoria di Vendola non consentirebbe l’accordo con Casini. La scelta, discutibile come tutte le scelte, potrebbe essere comprensibile se con il leader dell’Udc ci fosse un accordo generale, in quasi tutt’Italia. Ma non è così, perché quel partito è libero, ad esempio, di allearsi con la Lega in Lombardia e con la Polverini nel Lazio.

Il presidente del partito, Bindi, alla vigilia della decisione finale in Puglia, allora, formula al suo segretario queste ragionevoli obiezioni, ma cade in una contraddizione clamorosa: è d’accordo con un’alleanza del suo partito con Casini, pur prevedendo che, alle prossime elezioni politiche, sarà proprio lui l’avversario, il candidato del centrodestra, l’erede di Berlusconi.

Il vero problema del Pd non è, in questa situazione, la percentuale del consenso elettorale e neanche il numero di Regioni attualmente governate dal centrosinistra che resisteranno al prevedibile tsunami berlusconian-leghista nel voto di fine marzo. In Europa, il confronto numerico tra le forze riformiste e quelle moderate e conservatrici non trova l’Italia in un drammatico svantaggio, anzi. Si tratta, invece, di metter fine al marasma di contraddizioni politiche, di giravolte nelle alleanze, di lotte tra gruppi e dirigenti che si odiano e di prendere atto che la convivenza tra una cultura di governo e la testimonianza di antiberlusconismo è fallita.

L’Italia ha bisogno di un’opposizione tale da non perpetuare, nella seconda repubblica, il vizio fondamentale della prima: l’impossibilità di un ricambio a Palazzo Chigi. Con il rischio di una situazione peggiore, perché, una volta, tra Dc e Pci, almeno, c’era il riconoscimento di una comune partecipazione alla costruzione dello Stato repubblicano e la condivisione delle sue regole. Un patrimonio sul quale, oggi, non possiamo neppure contare con certezza
La Stampa 10.01.10