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"Il dolore degli uomini", di Gian Antonio Stella

«Volevamo braccia, sono arrivati uomini», sospirò trent’anni fa lo scrittore svizzero Max Frisch spiegando perché troppi connazionali fossero così ostili agli immigrati italiani contro cui avevano scatenato tre referendum. Ostilità antica. Anche i nostri nonni furono portati in salvo come i neri di Rosarno. Le autorità furono costrette a organizzare dei treni speciali per sottrarli nel 1896 al pogrom razzista scatenato dai bravi cittadini di Zurigo. E altri gendarmi e altri treni avevano sottratto i nostri nonni, tre anni prima, ad Aigues Mortes, alla furia assassina dei francesi che accusavano i nostri, a stragrande maggioranza «padani», di rubare loro il lavoro.

L’abbiamo già vissuta questa storia, dall’altra parte. Basti ricordare, come fa Sandro Rinauro ne «Il cammino della speranza», che secondo il Ministero del Lavoro francese «alla fine del 1948 dei 15.000 italiani presenti nel dipartimento agricolo del Gers, ben il 95% era irregolare o clandestino». Come «irregolari» sono stati almeno quattro milioni di nostri emigrati. C’è chi dirà: erano altri tempi e andavano dove c’erano posto e lavoro per tutti! Falso. Perfino l’immenso Canada, spiega Eugenio Balzan sul «Corriere» nel 1901, era pieno di disoccupati e a migliaia i nostri «s’aggiravano in pieno inverno per Montréal stendendo le mani ai passanti». Tutto dimenticato, tutto rimosso. Basti leggere certi commenti, così ferocemente asettici, di questi giorni. «Chi non lavora, sciò!» Anche quelli che erano a Rosarno dopo aver perso per primi il lavoro nelle fabbriche del Nord consentendo un’elasticità altrimenti più complicata e cercano di sopravvivere in attesa della ripresa? Sciò! Anche quelli che fanno lavori che i nostri ragazzi si rifiutano di fare? Sciò! Anche quelli che lavorano in nero per un euro l’ora? Sciò!

Mai come stavolta è chiaro come l’abbinamento clandestino = spacciatore è spesso un’indecente forzatura. A parte il fatto che moltissimi a Rosarno avevano il permesso di soggiorno, c’è un solo spacciatore al mondo disposto a lavorare dall’alba alla notte per 18 euro, ad accatastarsi al gelo senza acqua e luce tra l’immondizia, a contendere gli avanzi ai topi? Dice il rapporto Onu 2009 che chi lascia l’Africa per tentare la sorte in Occidente vede in media «un incremento pari a 15 volte nel reddito » e «una diminuzione pari a 16 volte nella mortalità infantile» dei figli. Questo è il punto. Certo, non possiamo accogliere tutti. Ma proprio per questo, davanti al dolore di tanti uomini, ci vuole misura nell’usare le parole. Anche la parola «legalità». Tanto più che, ricordava ieri mattina «La Gazzetta del Sud», l’Inps scheda come «braccianti agricoli metà dei disoccupati della Piana». Un andazzo comune a tutto il Sud: 26 falsi braccianti agricoli smascherati nel 2008 in Veneto, 146 in Lombardia, 26 mila in Campania, 14 mila in Sicilia, 16 mila in Puglia, 10 mila in Calabria. Dove secondo i giudici antimafia buona parte delle false cooperative agricole che poi magari usano i neri in nero sono legate alla ’ndrangheta. Dio sa come il nostro Paese abbia bisogno di rispetto della legge: ma quali sono le priorità della tolleranza zero?
Il Corriere della Sera 11.01.10

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“E le arance marciscono”, di Roberto Giovannini
Chi vuole vedere dove e come sta maturando la prossima bomba sociale che – prima o poi – scoppierà nella Piana non ha che da andarsene un po’ in giro.
Lo spettacolo degli agrumeti è impressionante: filari su filari di alberi che letteralmente crollano sotto il peso delle arance mature che non sono state raccolte e presto marciranno a terra. O nel quartiere di Case Nuove, dove quasi tutte le basse e spoglie palazzine di cemento sono occupate da bulgari e romeni. «Neocomunitari» che non hanno bisogno del permesso di soggiorno, che se trovati in un campo o in un cantiere all’italiano che li impiega procurano solo una multa per lavoro nero, e non una denuncia per immigrazione clandestina. Un popolo che si moltiplica e la cui massiccia presenza comincia a creare tensioni.
Qualcuno pensa che saranno proprio bulgari e rumeni (insieme ad altri extracomunitari «bianchi», come albanesi, ucraini e moldavi) quelli che faranno la prossima campagna di raccolta agrumicola nella Piana al posto dei migranti africani scacciati. Ne sono convinti quasi tutti i rosarnesi. «La stagione prossima saranno sicuramente loro a farla – dice Gianfranco La Ruffa, un imprenditore agricolo – già quest’anno se ne sono visti tanti nei campi. Si inseriscono meglio, già quest’anno avevano tolto lavoro ai neri». La sostituzione di manodopera «nera» con quella dell’Est Europa era anticipata in una ricerca del 2005 del professor Andrea De Bonis, che oggi opera nell’Alto Commissariato Onu per i Rifugiati, secondo cui però al Sud, specie per colture non finalizzate al mercato ma a incassare i sussidi comunitari, «servirà sempre e comunque una manodopera di riserva di africani, utile per tenere bassi i salari».
Francesco Cinato ha una modesta tabaccheria a Rosarno («mi hanno rapinato due volte, italiani, con tanto di mitra e pistole», racconta) e non sopporta che si parli di razzismo. Pure lui pensa che nei campi ci andranno i bulgari e i rumeni, finora soprattutto attivi in edilizia e (sostiene) nel caporalato, trasportando in furgone gli africani. Con Cinato facciamo un giro per il quartiere Case Nuove di Rosarno. E’ quasi interamente popolato di est europei, che non hanno voglia di rispondere alle domande dei giornalisti: li si vede scendere da tanti furgoni con targa «BG», molti sono andati a fare la spesa al discount MD aperto di domenica, che ora nonostante i prezzi stracciati dovrà fare i conti con la scomparsa della clientela africana. «All’inizio – spiega la nostra guida – c’erano solo gli uomini, si mettevano in otto in casa. Adesso molti hanno portato le famiglie, chi può si cerca un lavoro stabile o specializzato». Una manna per i proprietari delle case, da tempo sfitte, spesso in abbandono e cadenti: adesso incassano affitti da 200, 250 euro al mese che per i rosarnesi sono un bel reddito aggiuntivo (al nero, ovviamente).
Se non che i bulgari cominciano a creare diversi problemi. «Hanno costumi libertini», dice con pudore una signora, alludendo al comportamento di alcune delle nuove arrivate. Già molte che lavorano come badanti o colf hanno fatto breccia nel cuore (e nella solitudine) di tanti anziani rosarnesi, facendosi sposare, con un occhio all’assegno Inps di reversibilità. Ma tante di queste belle e aggressive est europee hanno «sfasciato famiglie», facendo innamorare di loro uomini sposati, che per loro hanno lasciato consorti e figli. Storie di cui tutti parlano, qui. Così come si parla di una banda di slavi dediti ai furti in casa.
Intanto, sugli alberi le splendide arance stanno già cominciando a marcire. Arance che nessuno raccoglierà, che cadranno a terra perché non rendono niente a chi le coltiva. Le meravigliose «Bionde di Calabria», le squisite «Novellino» perfette per la tavola, le succulente rossissime «Moro». Ai produttori danno 3, 4 centesimi al chilo, una miseria. Tantissimi hanno deciso di lasciarle sugli alberi accontentandosi del contributo per ettaro (800-1200 euro) dell’Unione Europea, evitando di sprecare soldi per pagare i migranti neri, che quest’anno sono venuti invano nella Piana a cercare giornate di lavoro, prima della pulizia etnica. Quest’anno negli agrumeti sono stati raccolti solo i clementini, che rendono 25 centesimi al chilo, e chiedono raccoglitori bravi, capaci di prendere bene i frutti con le foglie. Sotto Natale si cominciava con le arance; per adesso non le ha colte quasi nessuno. «Una volta chi aveva un aranceto era considerato benestante – spiega Mina Papasidero, il cui padre e fratello sono imprenditori agricoli – ormai sono due anni che ci si perde soltanto, e tanti vendono per poco i loro terreni. Un aranceto richiede tante spese, acqua, energia, fertilizzanti, e tanto lavoro specializzato in tutte le stagioni. Ma il prodotto non rende nulla. E’ brutto vedere frutti così belli cadere a terra e marcire. Ma in tanti hanno pensato così almeno di limitare le perdite. Noi, che faremo? Dobbiamo ancora pensarci».
Un altro agrumicoltore a poca distanza ha già deciso: «Giornalisti, le volete le arance? Prendetele, fatevene una cassa e portatele via».
La Stampa 11.01.10

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Ora tocca ai romeni. L’ordine delle ‘ndrine: “Via chi non ci serve”, di Gianluca Ursini
Non ci servite più. E adesso ve ne potete andare. Questo il messaggio che le ’ndrine hanno voluto dare ai braccianti»: ossia i meno docili, ma trattati in maniera più disumana. E che alla fine si sarebbero ribellati. Sergio Genco coordina la Cgil calabrese e sui motivi della «seconda rivolta» dei migranti di Rosarno ha idee chiare. Il mercato di arance e clementine è asfittico, i prezzi sono crollati, molti piccoli produttori lasceranno marcire i frutti sui rami pur di non affrontare i costi della manodopera alla raccolta, e i rosarnesi e le cosche infiltrate nel mediazione tra produttore e consumatore non volevano più la massa di lavoratori irregolari, oltre 1200, deportati tra sabato e domenica dai «lager» Rognetta, Opera sila e Colline di Rizziconi.

«I clementini? Per me sui rami possono marcire! Ma almeno non mi devo vedere tutti questi neri tra i piedi!»; il signor Giovinazzo abita in contrada Bosco, dove i braccianti inferociti della ex Opera Sila giovedì sera hanno dato alle fiamme la vettura della 31enne Antonella Bruzzese, picchiandola e intimidendo i suoi due figli di 10 e 2 anni,e scatenando così la più violenta delle ritorsioni rosarnesi di questi giorni.

Allo «Spartimento» il quadrivio tra Statale 18 e la poderale per il mega Inceneritore della Piana, per giorni gli abitanti del posto hanno atteso al passo con le mazze i migranti uscissero in fuga per vendicarsi. Ma molti di loro prima impiegavano gli immigrati nei loro «giardini», come i calabresi chiamano i fondi agricoli. Ma da un paio d’anni a questa parte, non più.
Da quando la politica agricola dell’unione europea è cambiata con l’ingresso di Romania e Bulgaria, mutando il sistema dei rimborsi per gli agrumeti. «All’agricoltore calabrese, come in tutto il Meridione, paradossalmente entrano più soldi in tasca a lasciare i frutti marcire,che a farli raccogliere dagli intermediari che li destinano alle industrie della trasformazione insucchi e marmellate – spiega Antonino Calogero, un sindacalista di Gioja Tauro che studia la filiera produttiva degli agrumi da decenni – i prezzi sono crollati a 6 centesimi al chilo per le arance». Più remunerative le clementine, i mandarini della Piana: ben 10 centesimi per chilo raccolto «sulla pianta».

L’associazione di categoria Coldiretti precisa che il prezzo delle arance dall’albero alla nostra tavola subisce una moltiplicazione del 474 percento. Cifre folli, e con un prezzo indicato dai rappresentanti degli agricoltori che non rispecchiano nemmeno i reali prezzi contrattati al mattino dai contadini con i capibastone che acquistano per le ’ndrine locali, padrone del settore. Per Coldiretti il prezzo delle arance è 27 centesimi al chilo per il frutto da tavola. I «purtualli» (per un calabrese) destinati al succo di frutta non vengono pagati più di 6 centesimi al chilo. «I rimborsi Ue con il nuovo sistema comunitario, garantiscono una resa maggiore per ettaro» spiega Calogero. prima si pagava l’agricoltore per i quintali prodotti dai fondi, certificati dalla Regione; ora i soldi vengono rifondati a seconda degli ettari di terra posseduti, e dichiara di aver coltivato; se lamenta invenduto si consola con gli euro di Bruxelles. Se consideriamo che anche pagando in nero i braccianti 20 euro algiorno, per cassetta di arance raccolte il costo di raccolta non scende sotto gli 8centesimi. Raccogliere è un gioco al ribasso.

Ecco perché i migranti di Rosarno erano diventati un peso. «Ai pochi che ancora volessero raccogliere i frutti, o i grandi possidenti che su tonnellate di prodotto raccolto, hanno ancora un utile, bastano e avanzano i rumeni, ucraini bulgari e maghrebini residenti in città, quasi tutti in case in affitto» – spiega Pino, un ex bracciante alla «Casa del popolo Valarioti», nel centro città. Era già così l’anno scorso; chi si fosse avventurato sulla statale 18 alle 6 del mattino con Gabriele Del Grande, il blogger di «Fortress Europe» e studioso della migrazione, avrebbe passato una mattinata insieme a ragazzi maliani, burkinabè e senegalesi che aspettavano invano agli angoli delle strade perché le porte dei furgoncini dei «capi neri» (come i migranti chiamavano i caporali del primo livello, gli sfruttatori extracomunitari, unici a poter trattare prezzi e disponibilità di giornata con i caporali calabresi) si aprissero per portarli a lavorare. Già nell’inverno 2009 i «neri» non erano più graditi dopo aver osato manifestare contro la ’ndrina per le strade rosarnesi nel dicembre 2008.
L’Unità 11.01.10