memoria

"Giolitti il riformista senza casa", di Luigi La Spina

Morto a 95 anni. Tra Pci e Psi una sfida politica e intellettuale. È morto a Roma nella notte tra domenica e lunedì Antonio Giolitti. Nipote dello statista Giovanni Giolitti, è stato membro dell’Assemblea Costituente nel 1946 e più volte ministro dal 1963 al 1974. Fra tre giorni avrebbe compiuto 95 anni. Il riconoscimento più alto e più significativo gli arrivò quasi alla fine della vita. Quattro anni fa, Giorgio Napolitano, appena eletto al Quirinale, come primo atto della sua presidenza, volle recarsi in visita da lui, nella sua casa romana, vicino al Ghetto. Così, il nuovo capo dello Stato riconobbe solennemente che nel 1957, dopo l’invasione sovietica dell’Ungheria, Antonio Giolitti ebbe ragione a lasciare il Pci per protesta e lui ebbe torto, quando difese l’intervento dei carri armati a Budapest. Un tributo davvero meritato a una delle figure più illustri del riformismo socialista italiano, nipote del riformista liberale più importante della prima metà del secolo scorso, Giovanni Giolitti.

C’è una pagina, quasi alla fine del suo bellissimo libro di memorie, Lettere a Marta, edito dal Mulino nel 1992, che sintetizza il senso dell’impegno civile di Antonio Giolitti, cioè il tentativo di coniugare la vocazione dell’intellettuale con la partecipazione alla lotta politica. Quando ricorda alla nipotina il valore fondante delle idee dell’Illuminismo per la costituzione dell’Europa moderna. Ed è nel solco di questa grande tradizione culturale che va vista la sua testimonianza in politica: quella di un uomo che ha cercato per tutta la vita, sostanzialmente invano, un partito che potesse rappresentare i suoi ideali, quelli di libertà e di giustizia, ma in una profonda rivoluzione morale del nostro paese.

Fu la guerra partigiana e, poi, la frequentazione del cenacolo torinese riunito intorno alla casa editrice Einaudi a convincere Antonio Giolitti a innestare la tradizione liberale della famiglia nel Pci del secondo dopoguerra. Nell’illusione che fosse possibile conciliare, in un partito di massa, il suo riformismo radicale con il rispetto della libertà di coscienza dell’individuo. Dopo l’esperienza giovanile ai lavori della Costituente, nel 1957, quando la brutale realtà dell’imperialismo sovietico si scontrò con la sua intransigenza intellettuale e morale, non esitò a pagare il prezzo di un traumatico abbandono del Partito comunista. Non gli furono risparmiate condanne, aspre e persino malevole, con le consuete accuse di tradimento revisionista.

Continuò, così, nel Partito socialista l’avventura politica e intellettuale di Giolitti, alla ricerca di una autonomia che consentisse di tradurre in «operante» il suo riformismo «vociferante». Fu, questa, la stagione del sua esperienza di ministro del Bilancio nei primi governi di centrosinistra. Con un gruppo di discepoli dell’«ingegnere» Riccardo Lombardi – Giorgio Ruffolo, Giuliano Amato, Luciano Cafagna – progettò una serie di riforme strutturali dell’Italia, capisaldi della cosiddetta «programmazione economica». Un tentativo, ardito e un po’ utopistico, di trasformazione politica e sociale del nostro Stato che si scontrò, abbastanza presto, con tali resistenze conservatrici che ne portarono al sostanziale fallimento.

Alla fine degli anni 70 comincia, nel Psi, la sfida di Antonio Giolitti al riformismo craxiano, più pragmatico e impegnato fondamentalmente in un duello con la Dc per la guida del governo. Proprio al congresso di Torino, nel 1978, il gruppo di intellettuali e politici riuniti intorno alla rivista Mondoperaio e che vedono in Antonio Giolitti una figura di riferimento, politico e morale, elabora e riesce a imporre una nuova cultura al vecchio partito di Nenni e di Morandi, sostituendo al veteromarxismo un socialismo con forti venature liberali. Il nuovo segretario, Bettino Craxi, accetta e sembra far propria questa innovativa impostazione ideologica, ma lo scontro con l’ala lombardiana del partito, molto presto, rompe l’alleanza sulla quale si era compiuto il «parricidio» di De Martino.

Al di là di idiosincrasie personali, fondate anche su concezioni morali e di costume politico molto diverse, il contrasto che portò alla nuova sconfitta di Antonio Giolitti e al nuovo abbandono del partito dove credeva di aver trovato finalmente casa fu determinato da due opposte strategie. Craxi puntava all’«alternanza», cioè a rompere l’egemonia democristiana a Palazzo Chigi. Nella convinzione che la forza modernizzante e aggressiva di un Partito socialista, rinvigorito nei consensi elettorali e capace di imporre un’egemonia culturale sulla sinistra, bastasse a sfuggire alla morsa del compromesso tra i due maggiori partiti italiani, la Dc e il Pci. Il progetto di Antonio Giolitti era un altro, quello dell’«alternativa». Un obiettivo, di medio-lungo periodo, che potesse consentire all’intera sinistra di indirizzare il governo del Paese, con un programma di riforme radicali e di sostituzione di quella classe politica democristiana al potere per tutta la nostra storia repubblicana.

È l’Europa l’ultimo rifugio politico e ideale di Antonio Giolitti. Commissario europeo fino al 1985, partecipa, con Altiero Spinelli, alla costruzione di una Comunità che non si limiti all’unione doganale ed economica, ma si proietti, con coraggio e lungimiranza, all’unità politica del Continente. Un sogno, ispirato al vecchio e profetico Manifesto di Ventotene, che trova, proprio negli anni in cui Giolitti è commissario, un nuovo slancio.

Dai primi anni 90, la carriera politica di Giolitti si conclude con il ritiro in un privato ricco di studi, di forti amicizie e confortato da passioni intellettuali mai soffocate dagli impegni pubblici, come la musica e la letteratura. Fino a chiudere la sua lunga vita nel segno del riserbo, dell’ironia, della coerenza morale, virtù davvero insolite nella nostra classe politica.
La Stampa 09.02.10

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Giolitti: Fassino, “Un protagonista della Repubblica e della sinistra”
“Un protagonista della storia della Repubblica, della democrazia e della sinistra. Un partigiano combattente che unì la tradizione liberale della sua famiglia prestigiosa con l’ansia di libertà e di giustizia di una nuova generazione. Un leader politico che seppe vedere e capire prima di molti altri la tragedia del comunismo e battersi, spesso in solitudine, per un socialismo democratico fondato sulla libertà. Un uomo di governo riformatore
ed europeista che ha dedicato tutta la sua vita ad affermare valori di laicità, eguaglianza, solidarietà e civiltà”.
Così Piero Fassino ha espresso cordoglio per la scomparsa di Antoni Giolitti, ricordando come “avesse guardato con simpatia e speranza alla svolta di Occhetto, aderendo anche ai Democratici di Sinistra e portandovi l’entusiasmo e la passione della sua lunga militanza socialista”.

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“Ci insegnò moralità e cultura”, di Vittorio Emiliani

Per i 90 anni gli scrissi che aveva insegnato a noi ventenni di metà anni ’50 moralità, cultura, passione riformatri-
ce. Mi rispose con una grafia appena incerta: ti sono molto grato, ma forse esageri. Giolitti era così. Non esponeva mai medaglie. Nel ’56 uscì dalla «chiesa» comunista in modo netto ed elegante, il solo «eretico» a non diventare anti-comunista. Tuttavia il primo dei «libri bianchi» curati per Einaudi fu Qui Budapest di Luigi Fossati inviato dell’Avanti! (ancor oggi palpitante). Gli interessava elaborare idee per un socialismo rinnovato. Fondò Passato e presente. Leggevamo con passione Alberto Caracciolo, Franco Momigliano, Alessandro Pizzorno. Poi impresse una svolta culturale a Mondoperaio facendone un vero laboratorio riformatore (all’epoca «riformista» suonava flebile). Molti di quei giovani intellettuali furono con lui all’ufficio del Piano, nella difficile ma entusiasmante esperienza di governo: Ruffolo, Sylos Labini, Coen, Cafagna, Amato e tanti altri. Del ’67 è Un socialismo possibile, una delle rare riflessioni sullo Stato regionale in confusa gestazione. Inascoltata.
In pieno Midas, nel luglio ’76, col comitato centrale del Psi impantanato alla ricerca di un nuovo segretario, il suo nome venne portato dai sindacalisti socialisti (Marianetti, Benvenuto e altri) e dal gruppo di Mondoperaio. Anche Lombardi (i due si erano allontanati non condividendo Antonio le punte radicali di Riccardo) si disse pronto a votarlo. Fausto De Luca, Pansa, Scardocchia ed io gli assicurammo il sostegno dei primi giornali nazionali. Non se la sentì. Peccato. Sarebbe stato un gran bel segretario, moderno, socialista, europeo. Se «socialismo» torna a non esser più una brutta parola, con Giolitti bisognerà fare i conti.
L’Unità 09.02.10