attualità, politica italiana

"Così hanno espropriato Costituzione e parlamento", di Eugenio Scalfari

La prima parola che viene in mente è bordello, nel senso letterale e metaforico del termine già usato da Dante nella celebre apostrofe “Non donna di province ma bordello”, cui si potrebbe aggiungere l’altro verso della stessa terzina: “Nave senza nocchiero in gran tempesta”. Il padre della nostra letteratura, cioè della nostra storia, aveva scolpito ottocento anni fa uno dei connotati permanenti della nostra società, per fortuna non il solo, ma purtroppo quello più ricorrente.
Non c’è ritratto più adatto per descrivere l’impressione suscitata dall’ennesimo scandalo del nostro scandaloso presente, quello che si intitola alla Protezione civile, al suo capo, Guido Bertolaso e al suo massimo ispiratore e primo fruitore, il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi.

La popolarità di Berlusconi e il consenso che ancora compattamente lo sostiene poggia infatti su tre pilastri: la lotta indiscriminata e sapientemente alimentata contro gli immigrati, la celere raccolta dei rifiuti a Napoli, la tendopoli e le casette rapidamente allestite a L’Aquila dopo il terremoto. Gli ultimi due debbono il loro successo a Guido Bertolaso e questo spiega la difesa che Berlusconi ha assunto personalmente del suo capocantiere, detto anche “il protettore” in quanto capo della Protezione.

L’uomo del fare ha trovato due anni fa un altro uomo del fare e l’innamoramento è stato immediato e reciproco. Saper fare e voler fare sono requisiti positivi se il fare viene esercitato all’interno di limiti precisi, di regole chiare, di controlli rigorosi.

Più aumenta il potere degli uomini del fare e più dovrebbero aumentare i controlli, le regole, i limiti. Ma se i controlli vengono smantellati, allora il potere del fare diventa un requisito negativo e questa è appunto la situazione che due anni di dittatura del cosiddetto fare ha creato.

Lo scandalo della Protezione civile è dunque intimamente connesso al berlusconismo e alla sua visione della cosa pubblica. Alla sua concezione costituzionale. Da anni il premier si batte per instaurare un assetto autoritario, dove l’accrescimento dei poteri presidenziali sia accompagnato dall’indebolimento dei controlli e dei poteri di garanzia. Dove il potere legislativo sia confiscato da quello esecutivo, dove il disegno di legge sia sostituito dal decreto legge e il decreto dall’ordinanza. E dove infine l’ordinanza sia “esternalizzata” e affidata non più ad un dipartimento collocato all’interno della Pubblica amministrazione, ma ad una società per azioni di carattere pubblico in veste privatistica, che ha come unico referente il capo del governo, con tutto ciò che inevitabilmente ne consegue e che lo scandalo Bertolaso-Protezione civile ha portato ora sotto gli occhi di tutti i cittadini. Per fortuna lo scandalo è scoppiato prima dell’entrata in vigore della legge sulle intercettazioni che se sarà approvata così come il governo la vuole, metterà il bavaglio alla stampa (a quel che resta della libera stampa). Con quella legge vigente l’opinione pubblica non avrebbe saputo nulla di ciò che è accaduto, nulla dell’istruttoria in corso, nulla delle risate degli appaltatori allo scoppio del terremoto, nulla del raddoppio dei prezzi in corso d’opera, nulla degli intrecci familiari e amicali, nulla dei “benefit” percepiti dagli appaltanti, nulla dei conti segreti.

L’opinione pubblica sarebbe stata tagliata fuori dalla delicatissima fase dell’istruttoria e così lo sarà nel prossimo futuro se quella legge sarà approvata. E questo sarà il quarto pilastro per completare il disegno dello Stato autoritario. Il quinto pilastro è e sempre più sarà lo scudo immunitario per gli uomini del fare e per quelli dell’obbedire.

Tagliar fuori l’opinione pubblica e tagliar fuori la giurisdizione: questo è l’obiettivo. Lo scandalo della Protezione civile è salutare perché mette allo scoperto la giuntura principale di questo disegno mentre ancora la pubblica opinione e la giurisdizione sono in grado di conoscere e di giudicare. Dopo sarà troppo tardi.

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Io non credo che Guido Bertolaso sia coinvolto in festini e se anche lo fosse non penso che sia questo il punto scandaloso della questione anche se intriga la prurigine pubblica, quella più appassionata ai “reality show” e al “Grande Fratello” in edizione televisiva.

Qualche giorno fa il sottosegretario Bertolaso mi ha indirizzato una lunga lettera in cui raccontava le difficoltà del suo lavoro, il valore dei suoi collaboratori, la bontà dei risultati ottenuti. Non ne voleva la pubblicazione; voleva che mi convincessi alla sua tesi del “tutto va bene e tutto andrà bene”. Ricevetti la lettera poco prima che lo scandalo scoppiasse, tardai qualche giorno a rispondere, nel frattempo lo scandalo scoppiò.

La mia risposta è stata breve. Ho fatto i più sinceri auguri al capo della Protezione per l’esito dell’inchiesta a suo carico, e li ho fatti “nell’interesse suo, dei volontari che lavorano con zelo e disinteresse ai suoi ordini, e del Paese”. Ma ho aggiunto che il mio giudizio sul sistema e sui poteri della Protezione è totalmente negativo e gli ho allegato il discorso pronunciato in Senato dal senatore Luigi Zanda sulla conversione in legge del decreto che istituisce la “Protezione civile Spa”, dove i vizi e i pericoli della nuova istituzione sono puntigliosamente e lucidamente elencati.

Rivelo questo epistolario per dire che non ci muove in questa circostanza alcun intento moralistico e alcuna antipatia personale. Bertolaso sa fare il suo mestiere ma con un assai grave difetto: una brama di fare che si traduce inevitabilmente in brama di potere. Ho scritto su di lui che è una protesi di Berlusconi e questa è la pura verità.

C’è una frase che il capo della Protezione ha detto in una recentissima intervista: “Se sto correndo in macchina per salvare una vita e il semaforo segna il rosso, io passo nonostante il rosso”.

Ha perfettamente ragione e noi abbiamo fervidamente applaudito quando ciò è avvenuto. Purtroppo l’area della Protezione civile si è enormemente accresciuta ed estesa ad eventi che non hanno niente a che fare con la vita delle persone e delle cose; eventi che non hanno nulla di catastrofico, appuntamenti che si svolgeranno tra mesi ed anni. Ma lui ha ottenuto di passare con il rosso sempre e dovunque. L’ha ottenuto e l’ha voluto. Ora dice che non poteva sorvegliare tutto, che nulla sapeva di appalti e di appaltatori, che forse è caduto in una trappola.

Io non credo che questa sua difesa corrisponda a verità; le intercettazioni della Procura di Firenze e le indagini della Guardia di finanza disposte dalla Procura di Roma prospettano una verità completamente diversa. Ma quand’anche Bertolaso fosse caduto in una trappola, è lui stesso ad essersela preparata. Non si possono guidare i lavori pubblici della Maddalena, quelli dell’Aquila, gli aiuti ad Haiti, la preparazione del Convegno eucaristico, le Olimpiadi del nuoto a Roma, i rifiuti a Napoli (ancora in corso), quelli a Palermo, le colate di fango a Messina, i Mondiali del ciclismo a Varese. Infine l’ondata di maltempo in tutta Italia che si avvicenda a siccità ed incendi secondo le settimane e le stagioni.

Questa è la trappola, alla quale ora si aggiunge la sua difesa nell’inchiesta che lo vede coinvolto. Spero per lui che abbia almeno il buon senso di dimettersi, ma purtroppo il sistema da lui pensato e da Berlusconi voluto resta in piedi. È quello che va smantellato anche perché è un sistema interamente incostituzionale. Ancora una volta è di incostituzionalità che si tratta.

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Non starò a far l’elenco degli appaltatori (attuatori) e degli appaltanti tra i quali si segnalano Balducci, presidente del Consiglio dei Lavori pubblici, De Santis che lo coadiuva. Non starò a ripercorrere le filiere familiari e amicali del gruppo Anemone, i Piermarini, i Piscicelli, i Gagliardi, i Della Giovampaola; una lunga filiera di figli, cognati, fratelli, amici da una vita, con nello scorcio perfino un vecchio padre salesiano, emerito finanziatore di missionari e anche di qualche lestofante. Tutte persone, affari, intrecci, che hanno occupato le pagine di Repubblica e di tutti i giornali dei giorni scorsi.

A me interessa invece tornare su “Protezione civile Spa” e più in generale sul sistema delle ordinanze.
La legge base sulla Protezione e sulle Ordinanze risale al 1992 ed è perfetta sotto ogni punto di vista, in raccordo con la giurisprudenza e con successive sentenze della Corte costituzionale. Quella legge autorizzava la Protezione civile “a passare col semaforo rosso” in caso di catastrofi naturali di importanza nazionale, fermo restando il controllo della Corte dei Conti sui rendiconti delle spese sostenute.

Vediamo anzitutto il numero delle ordinanze emesse dai successivi governi. A partire dal 1994 fino al 2001 sono state emanate un’ordinanza all’anno, al massimo due un paio di volte. Nel 2002 le ordinanze relative alla Protezione civile sono state 40, nel 2003 sono state 72, e poi 59 nel 2004, 99 nel 2005, 71 nel 2006, 87 nel 2008 e 79 nel 2009 fino al mese di settembre.

L’aumento va di pari passo con l’estensione dell’attività “protettiva” ai cosiddetti Grandi eventi al di fuori delle catastrofi naturali. Quest’estensione avvenne con le leggi del 2002 e del 2005. L’emissione di ordinanze non è più subordinata a criteri specifici ma a discrezione del Consiglio dei ministri, con una vera e propria confisca dei poteri legislativi e di controllo del Parlamento ed anche del Capo dello Stato perché le ordinanze sono esclusivo appannaggio del presidente del Consiglio in quanto atti puramente amministrativi. Ma puramente amministrativi non sono perché i veri atti amministrativi sono soggetti a regolari controlli della Corte dei Conti, dei Tar e del Consiglio di Stato. Si tratta cioè di amministrazione straordinaria, dove la straordinarietà è decisa dal Consiglio dei ministri con criteri eminentemente politici.

La Corte costituzionale aveva stabilito con una sentenza del 1956, più volte reiterata in casi successivi, che “le ordinanze debbono rispondere ai canoni dell’efficacia limitati nel tempo in relazione ai dettami della necessità, dell’urgenza e della adeguata motivazione”.

Si è invece arrivati addirittura ad utilizzare l’ordinanza per affidare alla Protezione civile l’attuazione dei decreti legge anche prima della loro pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale. Nemmeno il Re Sole aveva i poteri che ha Berlusconi attraverso la Protezione civile. La quale si è occupata perfino della costruzione di un albergo sul lago Maggiore in concomitanza con i campionati di ciclismo e si occupa ora dell’Expo di Milano che avrà luogo nel 2011. Qui non si tratta più di sorpassare un semaforo rosso ma addirittura di puntare l’automobile dritto sul passante per metterlo sotto le ruote, là dove il passante è semplicemente la democrazia parlamentare e lo Stato di diritto.

Ultima ciliegia su questa torta maleodorante: il sottosegretario alla Protezione civile è anche direttore del Dipartimento della P. C.; sarebbe come se Gianni Letta, sottosegretario con delega ai servizi di sicurezza, fosse anche il direttore di quei servizi. È curiosa la difesa preventiva di Letta per il collega in difficoltà. Vuole forse anche lui mettersi al posto dei direttori dei servizi segreti conservando la carica politica? Perché non lascia ai magistrati di fare il loro mestiere? Va bene che è gentiluomo vaticano, ma anche Angelo Balducci lo è. (Sia detto tra parentesi: il cardinal Bertone dovrebbe forse esser più rigoroso nelle scelte dei suoi gentiluomini. Uno è finito in galera per corruzione e non è una buona pubblicità per la Chiesa).

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A Guido Bertolaso vorrei porre qualche conclusiva domanda che ovviamente non riguarda la materia sotto esame dei tribunali.

1. Non si è accorto che l’estensione della Protezione civile ai Grandi eventi del tutto disconnessi dalle catastrofi causate dalla natura o dagli uomini, era al di sopra delle possibilità di un regolare servizio?

2. Se se ne è accorto, ha comunicato questa sua preoccupazione al Presidente del Consiglio? Ottenendo quale risposta?

3. Non si è reso conto che la creazione della Protezione civile Spa rendeva permanente quest’anomalia e confiscava ulteriormente i poteri legislativi del Parlamento?

4. Ha comunicato al presidente del Consiglio questa sua eventuale preoccupazione?

5. Si è reso conto che buona parte dei mutamenti apportati alla legge del 1992 potevano creare conflitti con l’ordinamento costituzionale?

6. Ha riflettuto sul fatto che le ordinanze relative a quegli eventi (tra le quali c’è anche l’attribuzione alla P. C. del finanziamento delle celebrazioni per l’Unità d’Italia) sono un modo per evitare la firma del capo dello Stato eludendo così il suo controllo di costituzionalità?

7. Ha informato di queste sue eventuali osservazioni il presidente del Consiglio? Quale risposta ne ha ottenuta?

8. Si è reso conto che, restando sottosegretario di Stato, esisteva un’incompatibilità assoluta con la carica di direttore del Dipartimento della P. C.? Questa incompatibilità è durata più di un anno. Per quale ragione?

9. Bertolaso è stato indagato per reati connessi alla gestione dei rifiuti di Napoli, insieme al suo vice dell’epoca (che è una donna a lui ben nota e a lui fedelissima). Il processo per il suo vice è in corso. Per quanto riguarda lui è stato invece stralciato e trasferito a Roma. Può dirci a che punto si trova questo processo?

10. Porgo queste domande a Bertolaso perché egli si è sempre proclamato un uomo al servizio dello Stato e non dei governi. Se fosse al servizio di questo governo e lo dichiarasse francamente, non porrei questi interrogativi. Ma se è al servizio dello Stato avrebbe dovuto porseli e quindi: perché queste domande non se le è poste da solo e non ne ha tratto le conclusioni?
La Repubblica 14.02.10

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“La società fra etica e anestetica” di ILVO DIAMANTI

Il sospetto è che: “Tanto rumore per nulla”. Come altre volte. Che il clamore intorno allo scandalo sugli appalti gestiti dalla Protezione civile in vista del G8 a La Maddalena e nella ricostruzione, dopo il terremoto in Abruzzo, alla fine, non produca effetti.

Non ci riferiamo all’ambito giudiziario. L’inchiesta seguirà il suo percorso, per accertare la fondatezza di accuse tanto infamanti. Ne verificherà le responsabilità e i responsabili. Non ci riferiamo neppure al versante politico, dove tutto si è svolto secondo copione. A partire dalla difesa del premier nei confronti del sottosegretario Bertolaso. Attesa e prevedibile, anche nelle parole. Quasi per riflesso pavloviano. Il nostro sospetto riguarda, invece, l’atteggiamento della “società media”, rilevato dai sondaggi. Tradotto e banalizzato in Opinione Pubblica. L’opinione della maggioranza. Silenziosa. Il sospetto è che, anche questa volta, la reazione della “società media” si limiti a quel brontolio, continuo e diffuso, che pervade la vita quotidiana. Dove tutti – davvero: tutti – si lamentano, recriminano, criticano. A voce bassa. Dichiarano la loro sfiducia verso i “politici”. Di ogni parte. Ma soprattutto di sinistra, perché loro, prima e più degli altri, hanno sollevato la questione “morale”. Se ne sono fatti garanti. Finendone, anch’essi, invischiati. Per cui prevale la convinzione – popolare – che ogni reazione, ogni moto di indignazione: è inutile. Non serve. Sono tutti uguali. E nulla cambia.

Da ciò il rischio: l’assuefazione a ogni scandalo. Che quindi non dà più scandalo. E induce, anzi, a guardare con sospetto chi si scandalizza. A trattarlo – con acida ironia – da “professionista dell’indignazione”. Così, dopo ogni esplosione polemica, sopravviene – e ritorna – il silenzio. O meglio: il mormorio. La colonna sonora (meglio: il sottofondo) al tempo della “società sfrenata”. Senza freni. Perché, anzitutto, si sono persi i riferimenti che associavano e orientavano i cittadini. Nel rapporto con le istituzioni e con il governo. I partiti di massa, grandi educatori al servizio di un progetto futuro. Dissolti. Personalizzati e oligarchici. Le grandi organizzazioni “intermedie” di rappresentanza. I sindacati, in primo luogo. Perlopiù burocratizzati. Una base ampiamente composta da impiegati pubblici e pensionati. Difficile chiedere loro di imporre vincoli morali. Fatica perfino la Chiesa, scossa e divisa al suo interno, come dimostrano le tensioni emerse dopo la campagna diffamatoria che ha costretto alle dimissioni il direttore dell’Avvenire, Dino Boffo. Lo stesso mondo del volontariato, il mitico Terzo settore, oggi appare impegnato – peraltro, con successo – sul mercato dei servizi più che dei valori. E gli “intellettuali”. Reclutati dai media. (Soprattutto dalla tivù). Oppure dai partiti. Voci deboli, perché hanno poco da dire. (Io, naturalmente, non mi chiamo fuori. Anche se la definizione di “intellettuale” mi fa rabbrividire).

Così, oggi è difficile trovare soggetti in grado di rafforzare il senso “civico” della società, ma anche di inibire il senso “cinico”. Mancano, cioè, i “freni”. Gli stessi “anticorpi della democrazia”, come scrive da tempo Giovanni Sartori.

Ma forse c’è dell’altro. Oltre al “familismo amorale”, riferito alla società del Mezzogiorno nel classico studio di Edward Banfield degli anni cinquanta – e oggi esteso all’intera società italiana. Oltre alla delusione prodotta dal ripetersi ciclico di rivolte antipolitiche puntualmente riassorbite e rimosse. Prima Tangentopoli, poi, quindici anni dopo, la Casta. E come effetto: dai partiti di massa ai partiti personali, ispirati da Forza Italia e Silvio Berlusconi.

Oltre a tutto ciò, dietro al disincanto diffuso del nostro tempo, c’è la mutazione del rapporto fra società e politica. Mediato dai media. Cioè: im-mediato. Senza mediazione. La politica e i leader di fronte agli elettori soli. In modo asimmetrico e squilibrato. Perché oggi la metafora più adeguata per descrivere il sistema della rappresentanza (ben delineata dal filosofo Bernard Manin) richiama la “scena”, dove si confrontano gli attori e il pubblico. Il quale può, certamente, decretare il successo oppure il decesso di un programma e (simbolicamente) di un attore. Ma, appunto, non è lui a decidere i palinsesti. Perché può solo reagire a un’offerta elaborata dall’esterno. A cui non partecipa. Ebbene, fatti e attori della scena politica in questa fase propongono una rappresentazione davvero amorale. Dove il dolore si mischia alla speculazione, la tragedia alla corruzione. Dove il pianto è interrotto dalle risa. La biografia del potere accosta, una accanto all’altra, figure e immagini di generi contrastanti. Da Rosarno a Palazzo Grazioli. Da L’Aquila alle telefonate di Balducci, Anemone e compagnia. E poi: i morti sul lavoro, i potenti della terra, escort e veline, aggressioni violente, il volto insanguinato del premier. Le immagini si sommano e si confondono. Senza soluzione di continuità. In questo paese provvisorio, abitato da post-italiani (per usare una felice e amara definizione di Edmondo Berselli), tutti siamo spettatori di una rappresentazione in-differente. Dove non c’è differenza fra giusto e ingiusto, giudici e malfattori, furbi e onesti. Buoni e cattivi. Perché i cattivi, i furbi e i disonesti fanno audience. Questa democrazia fondata sulla “deroga” (come l’ha chiamata nei giorni scorsi Ezio Mauro) rammenta un reality, anzi: iper-reality show. Dove al massimo possiamo “nominare”: Bertolaso oppure Berlusconi. (Gli altri sono già usciti dal gioco). Consapevoli del rischio: che il nominato, invece di essere escluso, resti protagonista della scena. Come prima e più di prima.

D’altronde, è difficile vedere alternativa. Se ci si arrende al pensiero unico: del partito personale, della scena mediatica al posto del territorio, dello spettatore al posto del cittadino, del senso comune al posto del senso civico. Dell’Opinione Pubblica dettata dai sondaggi invece che dal dibattito “pubblico” sui problemi, con la partecipazione degli attori sociali e degli intellettuali. Allora il senso civico si confonde con il senso comune. E il senso etico diventa, al più, anestetico.

La Repubblica 14.02.10