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"Il popolo padano ha paura di non farcela, Bossi sulla difensiva", di Michele Brambilla

Doveva essere la madre di tutte le adunate di Pontida. La ventesima. Quella della celebrazione del trionfo elettorale. Ma ieri Bossi è apparso stanco. Anzi ancor di più: è apparso dimesso. Ha dato l’impressione di giocare in difesa. E difesa non dagli attacchi dei nemici della Lega, ma dai mugugni del suo stesso popolo, che appare un po’ stufo di aspettare. Proprio qui a Pontida vent’anni fa Bossi aveva promesso il federalismo e ieri la sua gente è come se gli avesse chiesto: e alura?

Non è che ci sia stata contestazione, affatto. Giammai: Bossi non lo si discute, lo si venera. Ma era palpabile la sensazione che il popolo padano pensa questo: che un percorso sia ormai compiuto, e che sia giunto il momento di raccogliere il sospirato frutto, l’indipendenza del Nord. La percezione è che o adesso o mai più. Basta pazientare con gli alleati. E’ la terza volta che la Lega è al governo, mancano tre anni alla fine della legislatura e ancora il federalismo non c’è. «C’è, c’è», ha rassicurato Bossi, ma era appunto sulla difensiva, davanti a lui la sua gente urlava «secessione, secessione».

Doveva essere la madre di tutte le Pontida. Erano previste cinquantamila persone, ma la pioggia e il freddo hanno guastato i piani: ce n’erano più o meno cinquemila sul prato, anzi sul fango. Si dovevano celebrare come detto i vent’anni dal primo giuramento. Si dovevano celebrare i due primi governatori regionali: Cota e Zaia. Si dovevano celebrare i successi di Maroni nella lotta alla mafia e all’immigrazione clandestina. E poi ancora la man bassa nelle urne, lo sfondamento in Emilia, la penetrazione in Toscana e in Umbria. E infine il federalismo, finalmente raggiunto. Ma la percezione del popolo del Nord è che quel che s’è ottenuto è ancora ben lontano dal federalismo sognato.

Così un po’ di insofferenza c’è. In qualche colonnello monta la voglia di tornare a parlar di secessione: se non lo fanno è solo per obbedienza, la linea la decide Bossi e non sono ammesse correnti. Recitava ieri il cartello portato in testa da un militante: «Il federalismo è come andare a cena con Marilyn Monroe, la secessione è come andare a letto con Marilyn Monroe».

Il capo, che ha fiuto da vendere, ha capito che un po’ di scetticismo gira e ha cominciato subito il suo intervento come se stesse all’angolo. «Il federalismo lo facciamo io e Calderoli, non è cambiato niente, a Brancher non è stato dato un ministero per il federalismo ma per il decentramento», ha detto leggendo nel pensiero a quei tanti che in questi giorni hanno storto il naso dicendo: Brancher chi? Come mai il federalismo viene affidato a uno del Pdl? Non era roba nostra?

Bossi ha aggiunto che il decentramento è sì importante, perché porterà a moltiplicare le capitali, e a togliere potere e ministeri a Roma. Ma anche qui, quasi a giustificarsi, ha tenuto subito a chiarire che questa idea del decentramento è comunque farina del sacco leghista, «l’avevamo pensata vent’anni fa io e Miglio come seconda tappa dopo il federalismo».

Ma il federalismo è stato davvero raggiunto? «Tutti i fiumi e i laghi sono diventati di proprietà delle Regioni. Il lago Maggiore è tornato a essere del Piemonte e della Lombardia. Il lago di Garda della Lombardia e del Veneto. Sono patrimoni immensi». Qui Bossi s’è interrotto per compiacere la folla e ha ruggito come ai bei tempi: «Roma ladrona, la Lega non perdona», ha intonato. «I beni del demanio sono roba nostra che lo Stato ci aveva portato via e ora tornano a casa».

Però sa benissimo che i fiumi e i laghi non bastano. Da sotto il palco continuavano a gridargli «secessione, secessione». E lui: «Il Belgio si sta dividendo. Tante cose possono ancora avvenire». Ma il Bossi di ieri era un Bossi che, lo ripetiamo, sembrava doversi giustificare: «Noi potevamo scegliere tra il fucile e la via della tranquillità. Abbiamo scelto la seconda che è la migliore, perché è la via pacifica. Non dimentichiamo che la Lega è nata per la libertà della Padania. Non dimentichiamo il tradimento dei Savoia che hanno permesso ai francesi di invadere il Piemonte. Noi sappiamo che Cavour non voleva l’Unità d’Italia ma il federalismo, perché questa è la verità storica. So bene quanti fratelli sarebbero pronti a battersi». Poi, però, la nuova frenata: «Ma ho valutato che la via della tranquillità è la migliore. C’è sempre tempo per battersi». Ancora una volta, qui, è partito il coro «secessione, secessione», e Bossi ha risposto gridando «libertà», non «secessione».

Il capo sa però che una buona parte del suo popolo comincia a chiedersi se con questa alleanza di governo si sia davvero portato a casa quello che ci si aspettava. E allora ha cercato di soddisfare i più agguerriti: «Non ci piglino per scemi, i voti ce li abbiamo noi, non è che Berlusconi possa tagliarci e cacciare via dai ministeri». Toni comunque più pacati, ad esempio, di quelli usati poco prima da Calderoli, che a Berlusconi aveva lanciato questo avvertimento: «La Lega è alleata fedele, ma i patti vanno rispettati, e nei patti c’è il federalismo». Castelli s’era spinto ancora più in là: «Se non ci danno il federalismo questo Stato va a fondo e l’unica alternativa sarà la secessione. E sarà il Nord a chiedercela».

Ma il Bossi di ieri era un Bossi guardingo, forse anche preoccupato da un’impressione: che il ventesimo di Pontida sia il culmine di una parabola, dopo il quale culmine – se il federalismo non arriva davvero – non può esserci che una discesa.

La Stampa 21.06.10