attualità, cultura

"Riprendiamoci la patria", di Francesco Benigno

La patria. Alcuni in questi giorni si chiedono se non sia meglio rinunciare ad averla, una patria italiana. Affidando magari il destino comune agli Stati Uniti d’Europa che verranno, se verranno. O vagheggiando di sostituire l’Italia con piccole patrie inventate, più che improbabili, implausibili. E allora non è forse inutile ricordare – a 150 anni dall’unificazione e al di là delle retoriche che accompagnano naturalmente ogni celebrazione – come l’Italia sia qualcosa di più di un’idea astratta e molto, molto di più, di un anelito nazionalista. L’Italia è stata un percorso comune ed è ora il risultato di questo percorso, una comunità dotata non solo di una lingua condivisa ma di speranze e delusioni, di conquiste e di sconfitte, di interessi e di sentimenti, vissuti, difesi, coltivati insieme. Certo, c’è chi teme che richiamare la patria possa significare evocare un patriottismo bellicista, se non un nazionalismo becero e cieco, quello che ci ha fatto diventare, buoni ultimi, colonizzatori, quello che ci ha condotto alle leggi razziali e ad una disastrosa, epocale sconfitta nella seconda guerra mondiale. Ne è venuta, nella cultura progressista una remora e come una titubanza, talora sommessa, tal altra gridata. Non sarà che difendere la patria significa difendere anche valori aggressivi, sentimenti superiorità che possano alimentare nuovi sogni di conquista, mascherati magari da operazioni di peace-keeping? Non sarà che attorno all’idea di patria si addensino comunque sentimenti viziati da un senso di superiorità e destinati, se non più ormai a fare vittime, quanto meno a provocare disagio? Non è così.
C’è un modo possibile di considerare la patria come un valore inclusivo, che non dimentica gli errori e gli orrori del passato,ma che rivendica al contempo alcuni momenti fondanti della nostra storia. Quelli in cui l’idea di patria si è incrociata e mescolata ai discorsi di democrazia, di libertà, di emancipazione. Già in epoca risorgimentale, quando la disponibilità di tanti giovani a morire per l’Italia non era il frutto di uno scomposto impeto nazionalistico, ma un raccogliersi attorno all’idea di costruire un luogo migliore, una comunità più grande, l’unica adatta ad affermare nuove regole comuni, di libertà edi governo rappresentativo. Ed è significativo che per loro, per quei giovani, l’impegno non fosse solo quello di cacciare lo straniero, ma contestualmente quello di abbattere il tiranno, il sovrano assoluto soi disant di diritto divino. Come dimostra la loro disponibilità a combattere anche per la libertà altrui, quella dei greci, dei polacchi e di tanti popoli sudamericani che ancora oggi ricordano (nei monumenti, nelle strade) gli italiani venuti a morire nelle loro guerre di indipendenza. E poi, una volta fatta l’Italia, come dimenticare che l’idea di patria ha accompagnato tutti gli aneliti riformatori di un Paese che ha faticato e lottato a lungo per ottenere condizioni più eque di lavoro e di rappresentanza, per uomini e ancor più perdonne? La battaglia democratica, repubblicana e poi socialista per un’Italia diversa è stata a lungo il desiderio di creare un paese migliore, una patria più accogliente e soprattutto più giusta. E di nuovo, all’indomani dell’8 settembre, i «ragazzi che andavano in montagna» non avevano forse in mente l’idea di una patria nuova, depurata da quel sovrappiù di insopportabile che vi aveva aggiunto il fascismo col suo nazionalismo vociato, la sua retorica inane , il suo razzismo latente (e poi dichiarato)? Questa storia comune, certo, non è un unico, dritto sentiero, illuminato dal sol dell’avvenire. È anzi un percorso accidentato; ma è anche la strada che ci ha fatto moderni, ragionevolmente benestanti e cittadini del mondo. Sicché l’Italia che i cittadini hanno cantato nelle cento piazze e nelle mille manifestazioni celebrative di quest’anno è in fondo il riconoscersi in questo percorso, l’idea di una patria inclusiva, memore della sua storia. Non un’Italia contro, schiava di un passato che pesa e
non passa mai, ma una base per progettare un futuro comune. E se qualcuno chiede poi chi siano mai questi italiani che hanno riscoperto il sentimento della patria si può rispondere con le parole di Jordi Pujol, il leader storico dell’autonomia catalana – uno che di federalismo se ne intendeva davvero – che era uso dire: «I catalani sono coloro che vivono e lavorano in Catalogna e che amano questa terra». Ecco, anche per noi italiani è così. Non siamo altro che coloro che amano l’Italia e che vogliono impegnarsi per migliorarla.

L’Unità 20.09.11